Il vertice tra le 7 grandi potenze del mondo convocato da Barack Obama all’Aja, sarà incentrato quasi esclusivamente su tematiche di politica internazionale: la vicenda ucraina farà allo stesso tempo da fulcro e da proxy, per delineare una strategia condivisa su tutti i principali tavoli attualmente in discussione. Non sarà facile per il presidente americano, strappare la cieca osservanza all’azione unitaria contro Mosca dalle più importanti nazioni europee; sia per ragioni d’interesse (di vario genere, non solo economico), sia perché Obama ha ancora un conto aperto, legato al chiarimento da fornire sulle vicende dell’Nsa che hanno dato origine al “Datagate“. Una su tutte, Angela Merkel, che attende ancora risposte adeguate sulle attività di spionaggio che l’hanno coinvolta e sul futuro di certi comportamenti.
Quasi contemporaneamente inizierà in Kuwait, un altro importantissimo vertice: quello tra i leader della Lega araba, dove al centro della discussione, anche lì, ci sarà la politica estera. La possibilità di visioni condivise, sembra però ancora più complicata, sebbene è stato lo stesso segretario generale, il diplomatico egiziano Nabil el-Araby, a ricordare che la regione ha bisogno di «beneficiare del vertice», cancellando le situazioni pregresse.
Sarà altrettanto difficile. Molti osservatori concordano sulla possibilità che le riunioni in programma il 25 e il 26 marzo si chiudano con un nulla di fatto, nessun genere di accordi. E d’altronde le complicazioni nell’area aumentano giorno dopo giorno.
A cominciare della notizia di oggi, secondo cui la Corte d’assise egiziana ha inviato al Gran Muftì – l’autorità competente per decidere le pene capitali – la richiesta di condanna a morte per 529 militanti pro-Morsi, quasi tutti affiliati alla Fratellanza Musulmana: e il numero potrebbe crescere, visto che nei prossimi giorni finiranno alla sbarra altre 700 persone, anche loro accusate degli stessi reati, uccisione di poliziotti e ruoli nel fomentare la violenza di piazza (i fatti sarebbero legati alle proteste scoppiate a Minya, durante lo scorso agosto). Tra loro, c’è pure la guida spirituale della Confraternita, Mohamed Badie, e l’ex presidente del Parlamento, Saad al-Katatni, circostanza che porta ulteriore rilevanza – come se non bastasse già l’enorme numero di condannati – sulla vicenda.
E proprio i rapporti con i Fratelli, sono stati al centro di una delle vicende che ha fatto da antipasto al vertice kuwaitiano. Pochi giorni fa, infatti, l’Arabia Saudita aveva deciso, insieme al Bahrein e agli Emirati Arabi, di ritirare i propri ambasciatori dal Qatar, in risposta all’appoggio di Doha all’internazionale della Fratellanza Musulmana – che sta giocando un ruolo su tutto il fronte mediorientale fino alla Siria (anche se lì si trovano tutti dalla stessa parte delle barricate). L’Egitto aveva fatto scelte identiche già i primi dell’anno: e la decisione va contemporaneamente all’altra presa dai sauditi, e cioè quella di dichiarare la Fratellanza un’organizzazione terroristica – al-Sisi aveva già provveduto anche a qualcosa di simile nel dicembre scorso. La storia dei dissidi tra Arabia e Qatar è lunga, e l’Egitto – e le varie Primavere arabe – è stato uno scenario su cui si è giocato lo scontro, con Doha dalla parte di Morsi, e della Fratellanza (da sempre sostenuti anche economicamente) e i sauditi con l’esercito (di cui sono tra i principali finanziatori). La decisione che ha avviato la crisi diplomatica, apre una spaccatura nel Consiglio per la Cooperazione nel Golfo (gcc), l’Organizzazione internazionale tra i sei paesi più ricchi di petrolio (gli altri sono il Kuwait e l’Oman che si sono dichiarati neutrali sulla questione): la posizione presa dal Qatar, è stata vista dalle altre tre nazioni, come una violazione delle linee d’intesa per una accordo abbozzato a novembre, che aveva trovato l’avallo dell’emiro Shiek Tamim bin Hamas al Thani, in cui i paesi del Gcc si sarebbero impegnati ad evitare il sostegno di “organizzazioni che minacciano la stabilità del Golfo”.
La Siria è al centro di molte questioni, a cominciare dalla necessità di far partecipare i membri dell’opposizione siriana ai tavoli di confronto espressa da alcuni paesi (l’Arabia su tutti) già dallo scorso anno, dopo che la Siria era stata sospesa nel 2011 – il leader dell’opposizione, Ahmed Jarba parteciperà incontrando il segretario al termine ufficiale del summit, visto che ancora devono essere regolarizzate alcune procedure legali (su tutte la strutturazione formale delle opposizioni ufficiali), per permettere la sostituzione del seggio. Partecipazione che sempre secondo le stesse visioni, dovrebbe tradursi anche in un supporto materiale (soldi e armamenti) a sostegno dei ribelli. Tuttavia, a quanto pare il seggio siriano resterà vacante, e l’opposizione dei paesi arabi alleati della Siria (Algeria, Libano e Iraq), che sottolineano la forte componente dei gruppi jihadisti tra i ribelli, impedirà gli aiuti – se non, forse, sul piano umanitario.
Ma su quei tavoli ci sono anche altri dossier: a cominciare dal riecheggiare delle tensioni interne al mondo musulmano tra sunniti e sciiti, proveniente dal conflitto siriano. Anche qui, l’Arabia Saudita era stata protagonista di uno scontro verbale con l’Iraq: accusata dal governo sciita di al-Maliki di essere troppo morbida con il terrorismo sunnita, aveva ribattuto che le repressioni alle violenze nella provincia di Anbar, rischiavano una deriva settaria da parte del governo.
Su argomenti analoghi, trova terreno fertile la principale preoccupazione di diversi paesi del Golfo: l’influenza sul mondo sciita dell’Iran, in zone come il Kuwait, l’Iraq, l’Arabia orientale, il Bahrein. La sfida del progetto geopolitico iraniano di ampliare la propria influenza nel Golfo Persico, è sempre il principale campanello d’allarme, soprattutto adesso che gli Stati Uniti sembrano riaprire i colloqui con la Repubblica islamica.
Quello arabo, è un altro mondo diviso.