Girano da qualche giorno foto di ribelli siriani che festeggiano in mare una vittoria, ancora armati di tutto punto. Le acque sono quelle del Mediterraneo, e si festeggia la presa di Kessab, cittadina al limite del confine con la Turchia, a circa 60 chilometri a nord di Latakia.
Vittoria importante, perché non solo avviene molto vicino alla patria ancestrale delle setta alawita degli Assad (Latakia, appunto centro di altrettanti combattimenti, in cui un cugino del presidente è rimasto ucciso negli scontri), ma soprattutto perché per la prima volta dall’inizio del conflitto permette alle forze dell’opposizione di conquistare uno sbocco sul mare attraverso il piccolo villaggio di Samra.
Intorno a quello che è successo negli ultimi giorni nell’area, ci sono molte letture diverse e incerte (e molte controverse). A cominciare proprio dai video di quei soldati che fanno il bagno: perché stando a diverse ricostruzioni (per primo l’ha fatto su Twitter il super competente @MiddleEast_brk) quella spiaggia sarebbe addirittura un sensibile punto di confine, metà siriana e l’altra metà turca. Ci si chiede dunque, come mai quei combattenti ribelli potevano sguazzare liberamente in quelle acque, passando anche oltre confine, senza essere soggetti a controlli della polizia di frontiera della Turchia?
Alla domanda alcuni analisti rispondono con un considerazione legittima quanto logica: la Turchia avrebbe fornito aiuto e assistenza alle forze delle opposizioni che combattevano nell’area. E a rafforzar la tesi, anche un’altra cosa di cui si è parlato: alcuni feriti sarebbero stati trasportati oltre confine, senza troppi controlli doganali, per essere curati in cliniche più adeguate. In questo, a tal punto, potrebbe inquadrarsi anche il sospetto abbattimento del Mig siriano di cui si era detto pochi giorni fa: da Ankara avevano dichiarato di aver seguito le nuove regole d’ingaggio (nuove dal 2012) e aver colpito dopo lo sconfinamento. Il governo siriano invece ha denunciato una «grave ingerenza nel conflitto», secondo Damasco infatti l’aereo si trovava all’interno del proprio territorio.
Non è ben chiaro ancora se le volontà di Erdogan siano di avviare in Siria “un’avventura militare”, come da tempo l’aveva definita Kemal Kilicdaroglu, capo del Partito popolare repubblicano e leader dell’opposizione. Soprattutto quello che resta in dubbio è il cui prodest? dell’eventuale operazione, in un momento in cui non ci sono solo gli scandali sessuali (si parla da un po’ di un video hard del premier con la bellissima Defne Samyeli, ex miss Turchia), il discusso blocco di Twitter e quello ventilato su Youtube e Facebook, e le intercettazioni telefoniche che rivelano ulteriori elementi sulla strisciante corruzione che colpisce l’esecutivo (in una di queste, lo stesso Erdogan inviterebbe il figlio a nascondere una grossa somma di denaro); no, c’è dell’altro e peggiore. La Turchia infatti sta accompagnando l’enorme crisi politica (sottoscritta anche dall’incrinarsi dei rapporti con il presidente Gul), al blocco della crescita spinta che l’aveva caratterizzata in questi ultimi anni: e domenica 30 marzo c’è un importante banco di prova per il governo, l’elezioni amministrative. Dunque domandarsi perché il primo ministro starebbe infilando il Paese in mezzo a un conflitto sempre schivato (almeno a parole), in questo momento, è ovvio. Tanto più che la sensibilità dei cittadini non si sta spostando certo in quella direzione.
E tanto più se si considerano le altre notizie che arrivano sempre in questi giorni dall’area di Kessab. La città che praticamente è (o era) l’ultimo villaggio armeno della Siria (e del Medio Oriente), sarebbe stata oggetto di un attacco all’alba del 21 marzo, per mano dei ribelli siriani in tandem con formazioni paramilitari turche – che avrebbero fornito il supporto logistico. Lo stesso Presidente della Repubblica armena Serzh Sargsyan, ha denunciato la vicenda, e la Kessab Educational Association di Los Angeles ha addirittura inviato un appello al Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon (anche la Comunità armena di Roma ha preso posizione a proposito). La denuncia corre indietro di circa cento anni, e richiama i macabri scenari del genocidio operato dai turchi contro i cristiani armeni – primi al mondo a dichiarare il Cristianesimo religione ufficiale del proprio Paese, nell’anno 301. Questione mai risolta – ancora in Turchia la storiografia ufficiale cerca di inserire la vicenda tra i fatti legati alla Prima guerra mondiale, negando il piano specifico di sterminio dell’intera popolazione armena, spinto dal nazionalismo dei Giovani Turchi per creare uno stato nazionale turco nell’area del Turkestan (nominare il “genocidio” può costare il carcere, e ai Paesi che ne parlano arrivano le proteste formali di Ankara). Un sacerdote avrebbe raccontato via Facebook che tra le forze entrate nella città, c’erano turchi e jihadisti, uniti contro la comunità cristiana – ci sarebbero stati un’ottantina di morti, e oltre quattrocento famiglie sarebbero state costrette a lasciare le loro case, fuggendo alla volta di Latakia dove avrebbero ricevuto accoglienza dalle locali comunità cristiane.
Secondo quello che viene trasmesso attraverso le informazioni arrivate fin qui, si tratterebbe di un raid settario, operato sia dai turchi – rivivendo le pagine tragiche del Medz Yeghern, il “Grande Male”, come gli armeni definiscono il genocidio del 1915 – che dagli islamisti del Fronte di al-Nusra (sebbene sembra possibile anche la presenza dell’Isis, visto che girano foto di teste tagliate come trofei, bottini della cui efferatezza lo Stato Islamico è proprio).
Se non quelle provenienti dalle istituzioni di Yerevan, non ci sono altre informazioni in merito. Ma tra i tanti dubbi su quello che sta succedendo – e che sia successo – c’è anche un’altra notizia che arriva dalla Turchia. Poche ore fa le forze speciali della polizia turca avrebbero fatto un blitz in una base logistica dell’Isis ad Istanbul: diversi affiliati sono stati arrestati e almeno cinque agenti feriti.
A pensar male, e per pura speculazione, verrebbe da dire che se le notizie dell’appoggio ai ribelli – e del raid a Kessab – fossero confermate, l’operazione rappresenterebbe una pura propaganda, copertura per nascondere la vera attività di Ankara all’interno del conflitto: cioè essere entrati nel conflitto spalla a spalla con i ribelli (anche jihadisti) contro l’ex alleato Assad. Per il momento nessuna conferma, anzi solo smentite.
Ma su tutto, il dubbio resta: che convenienza avrebbe Erdogan?