Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è indebolito politicamente, molto più di un triennio fa quando prometteva al suo popolo maggiore vicinanza all’Europa e riforme. Il colpo di coda del leader, azzoppato dagli scandali, potrebbe essere proprio la costituzione di un asse ancora più forte con Iran e Brasile sul nucleare in chiave anti Ue. Le elezioni amministrative di domenica prossima in Turchia potrebbero essere decisive per un cambio di passo.
LO SPARTIACQUE DELLE AMMINISTRATIVE
Vincere alle urne ma perdere nell’immaginario collettivo nazionale e continentale? Potrebbe essere lo scenario che si aprirà dopo lo spoglio delle amministrative. Nella sua città, Istanbul, Erdogan e il suo partito AKP sono dati sopra il 40% ma distanti dalle “percentuali bulgare” registrate solo tre anni fa. La città sul Bosforo è chiamata domenica prossima ad elezioni cruciali, dove se la presa di Costantinopoli è ancora data in mano al partito AKP degli ex sodali Erdogan-Gul, è un fatto che scendere sotto il 40% sarebbe comunque un segno di crisi.
NUMERI E TREND
Secondo gli ultimi sondaggi diffusi nel Paese due giorni fa dall’Istituto di rilevazioni Konda con un margine di errore del 3%, l’AKP potrebbe contare sul 46% dei voti contro il 27% attribuiti ad appannaggio del Partito Repubblicano del Popolo, la principale forza di opposizione. Vittoria facile? Non proprio, perché se da un lato è quasi certo che l’AKP confermerà il proprio candidato a Istanbul, dall’altro un calo dei voti sarebbe comunque un’altra miccia che si innescherebbe nei delicati e equilibri interni legati al premier.
IL CONFRONTO COL PASSATO
Per avere un’idea del plebiscito a cui il partito di Giustizia e sviluppo era abituato, è sufficiente confrontare i risultati del 2011, quando alle elezioni parlamentari toccò il 49,5%: il culmine della sua popolarità elettorale. Alle amministrative invece nel 2009 si fermò al 39%. Ma questo risultato potrebbe essere messo in secondo piano dal vero nodo strutturale della Turchia, che oltre che politico e sociale, vista la crociata di Erdogan contro i social network, ha precisi contorni di matrice economica, a causa di una forte esposizione bancaria e con un circuito di consumi innescato negli ultimi due lustri da cui difficilmente si potrà tornare indietro.
DOPPIO DEFAULT
La Turchia è in piena crisi, come certifica dalle colonne di Liberation il politologo ed economista turco Ahmet Insel, docente all’Università Galatasaray di Istanbul. Una riduzione del 6% del PIL e disoccupazione pericolosamente al 14%. Elementi che si concretizzano nel blocco ai mega cantieri che il premier aveva immaginato, come il centro commerciale a Gezi Park, che causò gli scontri della scorsa estate con studenti e manifestanti a cui il governo rispose con la repressione. Quella è stata una sorta di linea Maginot oltre la quale, per Erdogan, sono diminuite le certezze, minate ulteriormente da alcuni scandali a cui il premier ha risposto con un esecutivo nuovo di zecca. Altro elemento da non sottovalutare è la sussurrata decisione della banche mediorientali di fermare i prestiti alla Turchia, motivo che sarebbe alla base del brusco stop alla costruzione del terzo aeroporto di Istanbul e pungolo per Erdogan a rafforzare l’asse ad esempio con l’Iran in chiave anti Ue.
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