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Salario minimo, che cosa non mi convince della proposta renziana di Enrico Morando

Enrico Morando insiste nel proporre l’istituzione di un salario minimo, sanzionato con la galera per il datore di lavoro che non dovesse applicarlo.

Il tema merita di essere dibattuto con serietà, anche perché il vice ministro renziano non si limita a prefigurare il nuovo istituto, ma lo inquadra in una visione più ampia dei nuovi assetti della contrattazione caratterizzata da una forte (e condivisibile) valorizzazione di quella cosiddett di prossimità.

Morando, nella sua intervista a Repubblica, ricorda le perplessità dei sindacati sull’introduzione di un salario minimo, osservando che tale istituto esiste in altri Paesi europei e che anche la Germania si appresta a prevedere una retribuzione minima legale pari ad 8,5 euro l’ora.

Chi scrive, tuttavia, considera fondate le contrarietà tradizionalmente espresse in proposito dalle confederazioni sindacali. Morando farebbe bene, infatti, non solo a leggere con attenzione il testo del disegno di legge delega presentato dal governo di cui fa parte al Senato, nel quadro del Jobs act, ma a consultare anche un qualunque manuale di diritto del lavoro per farsi un’idea del contesto in cui verrebbe a collocarsi il nuovo istituto.

Da noi, in mancanza dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che, alle previste condizioni per quanto riguarda i requisiti della rappresentanza e della rappresentatività sindacale, avrebbe consentito di stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes, la giurisprudenza ha affrontato e risolto la questione del trattamento retributivo minimo, estrapolandolo dall’articolo 36 (dove si sancisce che il lavoratore ha diritto a una ‘’retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa’’: una, questa, norma ritenuta immediatamente percettiva e quindi sindacabile in giudizio. Ma c’è di più: i giudici hanno fatto costantemente riferimento alla retribuzione di base (i c.d. minimi tabellari) previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria o di settore produttivo (il c.d. meccanismo di estensione indiretta del contratto nazionale).

Così, le retribuzioni individuate in rapporto alle tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali (non anche quelli aziendali) costituiscono il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore. In sostanza, l’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36 Cost. si è giunti al riconoscimento di un salario minimo garantito. Il canone giurisprudenziale  di ‘’retribuzione minima’’ si è storicamente consolidato, diventando di generale applicazione.

Che senso avrebbe, allora, cimentarsi con un problema già risolto, almeno per i lavoratori dipendenti ? Un salario minimo legale – destinato a dare copertura ‘’universale’’ a tutte le tipologie di lavoro – finirebbe per abbassare il livello di tutela ora assicurato dalla contrattazione collettiva.

Si replicherà: d’accordo, ma come la mettiamo con i lavoratori atipici? Basterebbe rispondere che, nella norma di delega del jobs act citata, il salario minimo sarebbe ‘’applicabile a tutti i rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato” e quindi finirebbe per intervenire laddove i problemi sono stati risolti da una giurisprudenza ultraconsolidata.

Ma volendo spostarsi nel limbo dei rapporti atipici occorrerebbe distinguere tra le fattispecie di lavoro autonomo effettivo e quelle dei rapporti c.d. parasubordinati ma definibili come ‘’economicamente subordinati”. Nel primo caso,  non avrebbe senso un intervento legislativo, nel secondo sarebbe saggio dare attuazione a quanto già previsto nell’attività legislativa degli ultimi anni.

La legge Fornero ha introdotto anche per i collaboratori a progetto un compenso minimo che dovrà essere stabilito dalla contrattazione collettiva o che, in assenza di questa, non potrà essere inferiore alle retribuzioni minime previste dai contratti nazionali di categoria applicati – nei settori di riferimento – alle figure professionali con un profilo analogo a quello del collaboratore a progetto.

Concludendo, la proposta del vice ministro Morando penalizzerebbe i lavoratori dipendenti (se la legge indicasse un salario minimo è plausibile ritenere che i giudici si adeguerebbero nell’applicazione dell’articolo 36 Cost.) e non risolverebbe la condizione dei lavoratori outsiders per i quali servirebbe, invece, un ampliamento dell’utilizzo dei voucher. Se poi il governo Renzi intende destrutturare gli assetti contrattuali esistenti, lo dica con chiarezza. A noi potrebbe pure fare piacere. Ma non vengano i suoi vice ministri a raccontarci – in clima  pasquale – che Cristo sulla croce morì per il freddo.



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