Sabato 1 dicembre ero a Verona. La bellissima Verona. Ho assistito per la prima volta, in diretta ed in presenza, ad un discorso di Monti.
L’occasione era ghiotta per ascoltare un collega che era diventato così importante per i destini contingenti e forse duraturi del mio Paese.
E’ piaciuto molto alla platea, specie ai molti giovani presenti, un elemento che mi ha stimolato ed incuriosito ancora di più a cercare di comprendere.
E’ piaciuto il suo discorso o la sua persona? Direi più la seconda. In fondo gli applausi sono venuti più all’inizio, alla fine e quando si arrestava e con leggiadria elegante, spontanea, ironica, interagiva con la platea. Durante il discorso e le sue risposte alle domande la platea era piuttosto annoiata o distratta. Io non ero distratto. Ero attentissimo. Pendevo dalle sue labbra. Cercavo di capire il modo di ragionare, le enfasi retoriche, la comunicazione, il modello economico che sosteneva il suo pensiero. Ovviamente non è vero, come diranno alcuni miei lettori, che non c’è un modello economico o addirittura che c’è il modello economico dello sfruttamento “funzionale all’espansione del regime germanico”. Anzi, lui stesso ridicolizza tale visione in un passaggio specifico, rivendicando le sue origine nordiste ed il suo spasmodico interesse per i destini delle imprese del Nord.
C’è una visione dell’Europa cauta. Attenzione. E’ cauto nel comunicare, non so invece quanto sia cauto nel progetto che ha in mente. Parla di una graduale, coordinata e condivisa cessione di sovranità, ma soprattutto gli sfugge, ma è solo un secondo: un “più la si sbandiera, meno la si riesce a fare”. Ecco una divisione fondamentale con il mio modo di vedere. In effetti questa Europa in questo anno è stata costruita nel segreto. Ma non per complotto, credo, per timore della democrazia. Un fallimento che genera altri fallimenti, a catena.
Lo hanno ripreso i giornali, l’opinione di Monti è che i numeri di recessione e disoccupazione avrebbero potuto essere più bassi, ma solo al costo di “ripresentarsi successivamente, peggiori”. Quindi un Monti che è conscio che le sue politiche sono recessive ma che nel lungo periodo l’economia se ne gioverà.
Ci sono due modi di razionalizzare questa visione del Presidente.
a) “L’isteresi non esiste”: gli effetti di breve non hanno ripercussioni di lungo periodo. Non siamo d’accordo, ovviamente. Questa disoccupazione giovanile, tanto più si protrae, tanto più espellerà giovani dalla forza lavoro, per sempre. Senza il minimo dubbio. Questa crisi, tanto più si protrae, tanto più probabile renderà l’uscita dall’euro. Senza il minimo dubbio, a maggior ragione vista la tentazione di “non sbandierare” quali siano i piani futuri dell’Unione. b) “Io sono come la Thatcher e Reagan”. Ovvero crisi oggi per espansione domani. Qui c’è una confusione drammatica. Quello per cui Monti si accomuna ai due leader degli anni ottanta immagino siano le politiche economiche restrittive sulla domanda: ma quelle furono fatte per ridurre le aspettative prima, e il valore attuale poi, dell’inflazione. Ed ebbero successo. Monti nel tagliare la domanda ha come obiettivo quello di stabilizzare il rapporto debito-PIL, e, al contrario di Maggie e Ronnie, sta fallendo pienamente in ciò. Monti potrebbe interrompermi e dirmi, no, in realtà io intendo fare le riforme, agire sull’offerta, come fecero Thatcher e Reagan, combattendo i sindacati nella pubblica amministrazione, riducendo le tasse, abbattendo i costi per le imprese. Appunto, neanche in questo il paragone tiene, nemmeno un po’: imparagonabile. E, attenzione, quando mi si dice che “lui ha avuto un solo anno”, ricordo che le cose più importanti di Thatcher e Reagan avvennero appunto il primo anno. Sì, non era un anno di elezioni, ma nemmeno per il tecnico Monti.
C’è poi l’incredibile contraddizione, stridente, dei tanti giovani seduti accanto a lui, sorridenti, intenti a costruirsi un futuro che appare credibile, in fondo tanti di loro sono giovani brillanti laureati. Una parte del Paese è qui, mi dico, un’altra non è rappresentata. E’ sempre così: quando si parla ad una platea spesso vi è un gruppo che ascolta, molto omogeneo. Se non è un discorso partitico, la bravura del relatore è quella di aprire spazi, far entrare nella sala la diversità, l’esigenza di comprendere ed accettare “gli altri”. I giovani disoccupati, i giovani perplessi, dubbiosi, timorosi, sconfortati, arrabbiati, non sono entrati nella sala. No, non per i carabinieri che bloccavano l’ingresso ai più estremi che protestavano con bandiere, no, non sono entrati nel discorso di Monti. Perché?
Forse quei giovani non ci sono perché il Presidente non crede nell’isteresi (e dunque non risponde al nostro appello). Ma soprattutto non ci sono perché a sorpresa, nel 2013, totalmente inatteso e non dovuto, il Presidente Monti annuncia con squillo di trombe non ripreso dalla stampa: “il 2013 sia l’anno dell’investimento in capitale umano”. Va avanti esaltando l’importanza dell’istruzione e criticando quella parte più corporativa dei maestri. Ma rimango basito. Come intende rendere il 2013 l’anno dell’investimento in capitale umano? In che modo? Con che politiche? Scuola? Università? Riforme? E quando avrebbe intenzione di avviare le politiche per quella che è probabilmente la più importante delle riforme del settore pubblico?
Incredibile. La verità è che quando una riforma la si annuncia senza crederci e senza renderla credibile, diventa automaticamente non credibile. Il che significa che ieri Monti ha ufficialmente chiuso le porte del 2013 all’investimento in capitale umano. Così, ufficialmente, distrattamente, con garbo ed eleganza.