In un post di un mese fa sulle allora imminenti nomine pubbliche, consigliavo al Premier Renzi di lasciar perdere l’ambizione prometeica di voler ridefinire nel giro di poche settimane la mission delle imprese di cui si sarebbero rinnovati i vertici e di concentrarsi invece sui nomi. In questo modo, se avesse puntato sulla qualità anziché su criteri che troppo spesso sono stati privilegiati avrebbe rottamato in maniera meritocratica e non giacobina.
Dopo che la partita delle nomine si è in larga parte consumata (almeno per le quattro società più rilevanti), si può dire che gli auspici iniziali si siano in gran parte realizzati. A dirigere le più importanti aziende a controllo statale sono stati chiamati nomi di grande spessore e di indiscussa professionalità. Se la stampa italiana ha fatto il titolo sul tris di donne presidenti (simbolicamente importante ma con effetti relativi sulla governance delle società interessate), i giornali internazionali hanno più pragmaticamente apprezzato i nomi scelti per i posti di CEO. Il più prodigo di applausi è stato il Financial Times, che ha elogiato soprattutto le scelte di Caio e Starace, giudicati i più lontani dalla vecchia guardia e al contempo apprezzati nei loro precedenti ruoli dagli investitori esteri. Mentre il Wall Street Journal, più parco di entusiasmi, si è soffermato soprattutto sulla scelta di Descalzi notando come dal 2008, cioè da quando il nuovo CEO di Eni è salito al vertice della divisione upstream, le riserve di petrolio e gas della principale compagnia italiana siano aumentate di 9,6 miliardi di barili equivalenti, cioè più del doppio della produzione. Certamente, il risultato più brillante della gestione Scaroni, su altre questioni meno apprezzata (non solo dai giornali ma anche dai mercati, il cui giudizio non può che essere tenuto in particolare conto in via XX Settembre ma anche a Palazzo Chigi, anche in vista di future offerte di quote azionarie in mano allo Stato).
Sarebbe però un errore pensare che il ruolo di un Governo si concluda al momento delle nomine, come in larga parte è avvenuto negli ultimi decenni. Non stiamo naturalmente parlando di interferenze nella gestione aziendale. Dio ce ne scampi e liberi. Ma un controllo dei risultati ottenuti dal top management in vista dei prossimi rinnovi tra 3 anni sembra il minimo sindacale per un governo che ha la giusta ambizione di cambiare l’Italia. Anche perché, una volta ottenuto il cambiamento, è giusto che alla prossima tornata sia premiato chi merita e sostituito chi non si è rivelato all’altezza. Secondo criteri possibilmente predeterminati, almeno a grandi linee. Sarebbe bello se prima delle assemblee previste, quando i nuovi manager assumeranno formalmente l’incarico, il Governo avanzasse dei criteri.
Come già ricordato qui, se sulle società non quotate è più difficile stabilire parametri oggettivi (anche se ad esempio, si potrebbe decidere che chi ha riportato gli ultimi due bilanci in perdita o ha peggiorato i suoi bilanci rispetto all’esercizio precedente la nomina sia automaticamente escluso dalla possibilità di rinnovo), su quelle quotate non c’è criterio più oggettivo del guardare all’andamento del titolo azionario in un lasso di tempo sufficientemente ampio (rispetto a un benchmark internazionale costituito dal gruppo delle imprese “peer” di Paesi paragonabili al nostro). I cittadini italiani non potrebbero che apprezzare senz’altro perché una maggiore capitalizzazione vorrebbe dire ovviamente una migliore valorizzazione degli asset pubblici. Naturalmente, occorrerebbe depurare l’andamento del titolo da particolari volatilità (per tenere tra l’altro conto della variabile Paese che potrebbe influenzarlo negativamente) così come fissare al meglio altri dettagli tecnici.
Ma se il Governo Renzi vuole cambiare questo Paese, anche attraverso un nuovo metodo per le nomine (non solo nella aziende pubbliche ma a tutti i livelli della PA), la sfida più importante non è quella sostanzialmente vinta di lunedì ma quella che attende lui o un suo successore tra 3 anni e nei successivi rinnovi. Stabilendo una metrica di giudizio sulla base della quale confermare o promuovere addirittura chi ha fatto bene e mandare a casa chi ha demeritato.
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