Circa a metà di aprile, Zara ha segnato, questa volta suo malgrado, un passaggio chiave nel mondo della moda globale. Il marchio spagnolo del gruppo Inditex, infatti, si è visto respingere dai tribunali brasiliani il tentativo di “discolparsi” da una delle accuse più infamanti: quella di “schiavitù”. Per di più, è stata accusata di “frode” proprio per questo tentativo di alleggerire la propria posizione. Il marchio spagnolo ha cercato di scaricare le responsabilità delle condizioni inumane dei lavoratori (per 15 persone nel 2011 sono state individuate le condizioni, appunto, di “schiavitù”), sul proprio fornitore Aha. Niente da fare, ha detto il giudice: il ricorso va respinto, visto che questa Aha produceva (a 0,06 centesimi a pezzo pagati ai lavoratori) per Zara al 90 per cento.
La decisione del giudice Alvaro Emanuel de Oliveira Simões è significativa in quanto centra il punto critico nella gestione della catena di prodotto da parte delle multinazionali. Il tribunale brasiliano ha valutato che, quando un colosso affida la produzione a una impresa locale, specialmente in quantità rilevanti come quelle del caso specifico, esiste comunque una responsabilità diretta per le azioni del fornitore. Il caso zara-Aha, dunque, fornisce un “precedente” pericoloso anche dal punto di vista giuridico per chi gestisce con troppa leggerezza la propria catena di subfornitura. E dunque spinge i rischi assai oltre le pur temute conseguenze di immagine.
Su questo fronte, quello dell’immagine, la vicenda Zara offre poi un altro paio di spunti interessanti. Il primo, è il silenzio mediatico con cui questa storia va sviluppandosi (già evidenziato nell’articolo Gli schiavi troppo silenziosi di Zara). A occuparsi del caso, oltre ai siti brasiliani e alcuni giornali spagnoli, non sembrano essere stati in molti (quanto meno, così risulta dalle ricerche di rete). È un aspetto curioso, spesso rilevato quando si parla di giganti della moda.
L’ultimo spunto di riflessione riguarda la “lista suja” (lista-sporca). Il ricorso di Zara era finalizzato a cancellare il proprio nome da questo elenco ufficiale (è tenuto dal Ministério do Trabalho e Emprego e pela Secretaria de Direitos Humanos) delle imprese che sono state trovate coinvolte nella violazione dei diritti umani.
Le “liste” sono un concetto da maneggiare con cura. Ma sono un deterrente formidabile. Specialmente per chi vive d’immagine.