Dal 22 al 29 aprile, il presidente americano Barack Obama ha visitato quattro Paesi asiatici: Giappone, Corea del Sud, Filippine e Malesia. I primi tre hanno accordi bilaterali di sicurezza con gli USA. Mancano nella regione Asia-Pacifico istituzioni multilaterali come la NATO. Le impediscono la geografia e la storia, i rancori e i crescenti nazionalismi. Inoltre, i Paesi asiatici non vogliono essere messi nelle condizioni di dover scegliere fra Washington, da cui dipendono per la sicurezza, e Pechino a cui sono legati economicamente. La Malesia, pur avendo buoni rapporti con gli USA, non ha con essi un trattato di sicurezza. Ha cercato sempre di mantenere un equilibrio se non un’equidistanza fra gli USA e la Cina. E’ indotta a farlo anche perché un quarto della sua popolazione è cinese.
GLI OBIETTIVI DI OBAMA
Quali erano gli obiettivi del viaggio di Obama? Sono stati raggiunti? In tutte le riunioni del presidente americano era presente un “convitato di pietra”: la Cina. Ogni valutazione sul viaggio deve tener conto delle reazioni di Pechino. Dopo la retorica dei precedenti anni – quelli del Pivot to Asia e della Trans-Pacific Partnership (TPP) – era sembrato che Obama non facesse seguire i fatti alle parole. Era assorbito dalla politica interna. Nel 2013 aveva annullato la visita programmata in Asia. L’unica conseguenza, si fa per dire concreta, del Pivot on Asia, annunciato con tanta enfasi nel 2009, era stata la dichiarazione del Pentagono che la Marina statunitense avrebbe “nel 2020” (!) schierato nell’Oceano Pacifico il 60%delle sue forze, rispetto al 50% attuale.
I TIMORI DEI PAESI ASIATICI
I Paesi asiatici erano preoccupati del disimpegno USA. Pensavano che cercassero un accomodamento, se non un accordo formale con la Cina. Era il sogno di Robert Zoellick, fautore di “Chimerica” (China and America). Il futuro ordine mondiale avrebbe dovuto essere centrato su intese fra Washington e Pechino, concordate nei loro semestrali summit (Strategic & Economic Dialogues). Ma la potenza non solo economica ma anche militare cinese è aumentata molto più rapidamente di quanto ci si aspettasse e la politica di Pechino, specie nei Mari Cinesi Meridionale e Orientale, è divenuta più assertiva. Nel frattempo, il sistema di alleanze statunitensi nella regione è apparso fragile: la Corea del Sud, per odio verso il Giappone – a cui non ha perdonato le “cattiverie” compiute durante la sua occupazione della penisola – ha migliorato i suoi rapporti con la Cina. L’ha fatto per trarne benefici economici, ma anche per l’appoggio che Pechino può darle nei riguardi della cupa, sanguinaria e imprevedibile Corea del Nord. Gli USA e il Giappone ne sono preoccupati, soprattutto da quando Seul aveva deciso di sviluppare un proprio sistema di difesa antimissili, anziché ricorrere a quello americano, come Tokyo.
LE TENSIONI TRA STATI
Il viaggio di Obama si è svolto in questo contesto caratterizzato da sospetti, incomprensioni e tensioni fra i vari stati e fra essi e gli USA. Obama voleva rassicurare i Paesi della regione della serietà del Pivot to Asia – riservando ai suoi alleati maggiore attenzione che alla Cina – riaffermare l’impegno americano per la sicurezza della regione, cioè per il mantenimento dello status quo nel Pacifico – dalla seconda guerra mondiale “lago americano” – e sbloccare i negoziati relativi alla TPP, in crisi dalla riunione fatta a Singapore un anno fa. In essa erano sorti dubbi che Washington si proponesse di raggiungere indebiti vantaggi commerciali e non solo l’obiettivo strategico di ridurre la dipendenza dei Paesi dell’area dall’export in Cina, per aumentarne la capacità di resistere a pressioni di Pechino. Tali timori erano aumentati quando il Congresso, notoriamente protezionista, non aveva concesso a Obama l’autorità di Fast Track per approvare l’eventuale accordo TPP, condizionandolo, quindi, alle pressioni delle varie lobby americane. Contrasti di fondo riguardano i prodotti agricoli. Il governo giapponese non ne accetta la liberalizzazione voluta dagli USA, attribuendo importanza vitale alle produzioni nazionali e al sostegno elettorale degli agricoltori.
UN FLOP (QUASI) COMPLETO
Sotto tutti i punti di vista, il viaggio asiatico di Obama è stato un flop quasi completo. Il “quasi” si riferisce alla concessione del governo filippino all’utilizzo da parte USA della due grandi basi – Subic e Clark – che gli USA avevano usato fino a metà anni ’90. Sono utili per la presenza USA nella zona più “calda” del mondo: il Mare Cinese Meridionale, essenziale non tanto per la US Navy, quanto per le Filippine. Per il resto, il viaggio non solo non ha raggiunto i suoi obiettivi. Obama ha concesso, sebbene solo a parole, più di quanto abbia ricevuto. Talvolta, la visita ha anche peggiorato la situazione, creando nuove incomprensioni e scontenti o, tutt’al più, si è limitata a prendere atto delle divergenze esistenti. La Corea del Sud non ha rinunciato alla sua difesa antimissili nazionale. Si limiterà a garantirne, per quanto possibile, l’interoperabilità con i sistemi USA. Il vice-premier giapponese ha affermato che gli USA devono togliersi dalla testa di poter esportare liberamente in Giappone il loro riso e la loro carne. Per il TPP, nessun progresso. Forse, seccato per i toni usati da esponenti giapponesi, Obama è rimasto ambiguo su quanto Tokyo gli aveva chiesto; che le isole Senkaku/Diaoyu – amministrate dal Giappone, ma la cui sovranità è rivendicata da Pechino – non solo sono “coperte” dal Trattato di mutua cooperazione e di sicurezza con gli USA, ma che sono giapponesi e che, in caso di necessità, verranno difese.
LE OBIEZIONI MALESI
Anche Kuala Lampur non ha dato a Obama grandi soddisfazioni. I malesi, sui cui il presidente americano riponeva tante speranze per dare impulso al TPP, hanno cortesemente detto che non possono fare più di quel tanto. Non intendono guastare i loro rapporti né con la Cina né con diaspora cinese, che vive in Malesia.
L’ESPANSIONE CINESE
La Cina, da parte sua, ha preso piuttosto male il viaggio, non perché ne temesse i risultati, ma perché la soluzione delle sue difficoltà interne può essere facilitata dall’esistenza di un nemico esterno. Pechino ha condannato il disegno americano di contenere la Cina e di evitarne l’espansione nei suoi mari adiacenti. In realtà, l’espansione cinese prosegue rapidamente non solo in Africa e in America Latina, ma anche nel Mediterraneo, nell’Europa Meridionale e nell’Africa del Nord. Basti ricordare l’invio di militari cinesi nel Mali, di certo per l’interesse di Pechino alle risorse minerarie del Sahel, oppure la recente esercitazione navale congiunta in Mediterraneo fra due gruppi navali, uno russo l’altro cinese. Gli avvenimenti ucraini e le reazioni occidentali contro Mosca non trasformeranno però la Shanghai Cooperation Organization in un’alleanza antiamericana. Mosca è preoccupata dell’aumento della potenza cinese. Un’alleanza la trasformerebbe in uno junior partner di Pechino. Anche l’ipotesi di esportare il gas russo in Cina, anziché in Europa non è credibile. La Cina non accetterà mai di accrescere in modo eccessivo la sua dipendenza energetica dalla Russia. Preferisce controllare direttamente i giacimenti petroliferi che la riforniscono, accrescendo la sua presenza in Asia Centrale.
UN NUOVO COLPO
Insomma, i risultati del viaggio sono stati risibili. La credibilità di Obama, diminuita dagli avvenimenti in Egitto, in Medio Oriente e in Siria, ha ricevuto un nuovo colpo dall’inefficace reazione americana in Ucraina. Per esercitare una leadership occorre possedere non solo la forza ma anche credibilità e prestigio. Nulla è più dannoso dell’insuccesso. La retorica dei “massimi sistemi” non può mascherarlo. I residui entusiasti della politica obamiana dovrebbero rendersi conto dei suoi limiti. Essi accrescono le loro responsabilità. Le difficoltà del Pivot to Asia potrebbero indurre Washington a rivolgere maggiore attenzione all’Europa. Gli equilibri del dopo-guerra fredda sono posti in discussione dal brillante dinamismo della politica di Mosca. Gli europei sono troppo divisi. Non sono in grado di farcela da soli. La “destra” europea è “russofila” e sempre più forte. Solo la presenza USA può evitare l’incubo di Ge-Russia, cioè di un accordo strutturale, non solo economico ma anche politico, fra Berlino e Mosca. Un “asse” russo tedesco sarebbe molto più intrusivo di quello franco-tedesco, ormai agonizzante, sulla sovranità degli altri Stati europei.