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Iraq, cambiamenti e incognite di un Paese al voto

Il 30 aprile circa 12 milioni di iracheni – poco più dei 21 milioni aventi diritto al voto – si sono recati alle urne per eleggere il nuovo parlamento. Hanno sfidato gli jihadisti, che avevano ordinato il boicottaggio delle elezioni. Oltre 100 sono i partiti in competizione. 9.000 i candidati. I risultati elettorali provvisori si conosceranno il 15 maggio: Quelli definitivi il 25. Una forte incertezza grava sulla possibilità di formare la coalizione che sosterrà il nuovo governo, anche se, a differenza delle elezioni del 2010, basterà la maggioranza semplice dei 328 parlamentari, anziché una qualificata di due terzi. Il nuovo sistema ha riflesso la frammentazione del paese. Molte aree non sono controllate dal governo, specie nelle provincia di Anvar e di Mosul.

LE ELEZIONI DEL 2010
Nelle precedenti elezioni, quelle del 2010, si affrontavano coalizioni preelettorali. Un’elevata soglia di sbarramento eliminava i partiti minori, tribali e localistici, semplificando il quadro politico. La nuova legge elettorale permette invece anche ai piccoli partiti di essere rappresentati in parlamento. Aumenta la rappresentatività, a scapito della governabilità. Inoltre, renderà necessari lunghi negoziati per la formazione del nuovo governo.
Nelle elezioni del 2010, il primo partito politico era stato quello interconfessionale di Ayad Allawi. Aveva ottenuto il voto dei moderati sunniti e sciiti, ma non la maggioranza necessaria per formare il governo. L’attuale primo ministro, Nuri al-Maliki, era riuscito a ottenerla, coalizzandosi con gli altri partiti sciiti. Invece di tentare di promuovere una riconciliazione nazionale, al-Maliki aveva però centralizzato il potere, emarginando i sunniti e anche i politici sciiti, appartenenti ai partiti sciiti di al-Haqim e di al-Sadr. Ciò aveva progressivamente polarizzato il quadro politico iracheno, provocato la rivolta di molti gruppi sunniti (specie di quelli facenti parte dell’ISIS – Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), una nuova offensiva terroristica e la fine del blocco sciita. L’opposizione armata è particolarmente intensa nella provincia occidentale dell’Anvar, le cui principali città – la capitale Ramadi e Fallujia – sono nelle mani delle milizie jihadiste dell’ISIS. Esse hanno in Iraq le loro basi per la guerra contro il regime alawita siriano.

LA GUERRA PER PROCURA
In Iraq, come in Siria, la conflittualità non è solo fra le varie fazioni etniche, confessionali e tribali. Vi si svolge anche una guerra per procura, in cui si confrontano Arabia Saudita e Iran e in cui interviene anche la Turchia. Ankara ha stretti rapporti privilegiati con il Governo Regionale del Kurdistan Iracheno. Deve però superare i contrasti con Baghdad, che vuole mantenere il controllo dei ricchi giacimenti petroliferi esistenti in tutto l’Iraq.

I PUNTI DI FORZA
Nonostante la frammentazione politica, il panorama politico iracheno non è del tutto imprevedibile. Al-Maliki sembra destinato a divenire premier per la terza. A parer mio, il suo maggior punto di forza è costituito da Hussein al-Shahristani – prima suo efficientissimo ministro del petrolio, poi vice-primo ministro. Avvalendosi del suo prestigio di grande servitore della nazione irachena, l’attuale premier riuscirà verosimilmente a neutralizzare l’opposizione degli altri partiti sciiti e a raggiungere la maggioranza. Ha il controllo dei cinque pilastri del regime iracheno: il petrolio, le forze di sicurezza, l’intelligence, le finanze e la politica estera. Shahristani gode di grande prestigio.

LA POLITICA ESTERA ITALIANA
Fisico nucleare, aveva partecipato nella seconda parte degli anni settanta alla collaborazione fra l’ENEA e l’Iraq. Quest’ultima era stata concordata nel 1976 da Nino Andreatta, inviato dal governo italiano. Si basava sulla fornitura da parte italiana di armamenti e di cooperazione nucleare, in cambio di petrolio. Allora la politica estera italiana non era “obamiana”, cioè inconcludente, come lo è oggi! Da ministro del petrolio, Shahristani ha promosso la ripresa della produzione irachena, su cui è basata la ricostruzione e la stessa stabilità politica del paese.

LA PRODUZIONE DI GREGGIO
L’Iraq produce all’inizio del 2014 quasi 3,5 milioni di barili di petrolio al giorno (mbg). Ha grandiosi piani d’aumento della sua produzione. Il programma di raggiungere entro il 2020 9-10 mbg, cioè un livello analogo a quello saudita, è irrealistico non tanto per motivi geologici quanto logistici e forse anche finanziari. Si valuta che, per tale anno, gli sia possibile raggiungere 6 mbg. In conseguenza dell’afflusso del petrolio iracheno e di quello iraniano, il mercato mondiale subirà un grosso mutamento. L’Iraq – come l’Arabia Saudita e a differenza della Russia e anche dell’Iran – può permettersi una consistente riduzione del prezzo unitario dell’oro nero, dati i suoi minori costi d’estrazione. Negli USA taluni pensano che l’aumento della produzione irachena di “oro nero” potrebbe spiazzare sui mercati mondiali quella russa. L’80% degli introiti energetici di Mosca derivano dal petrolio; solo il 20% dall’“oro azzurro”, cioè dal gas. Essendo regionale e molto rigido, per la sua dipendenza dai gasdotti, il mercato del gas, si presta a pressioni politiche della Russia contro l’Europa. Il mercato del petrolio è invece mondiale e molto flessibile. Eventuali sanzioni non si prestano a ritorsioni. Non per nulla le sanzioni contro la Russia per la questione ucraina hanno riguardato gli operatori del petrolio, non quelli del gas.

UN PROBLEMA INTERNAZIONALE
La possibilità di aumentare la produzione di petrolio dell’Iraq dipende dalla stabilità del Paese. Per questo le elezioni irachene ci riguardano direttamente. Dovrebbe essere loro dedicata maggiore attenzione. Come accennato, le elezioni sono un referendum pro o contro al-Maliki e la sua politica di accaparrarsi tutto il potere. Nella campagna elettorale si è presentato come l’unico in grado di garantire agli iracheni un certo grado di sicurezza e di ordine. La frattura dell’arco politico sciita, lo obbligherà certamente a cercare alleati al di fuori dei precedenti legami confessionali ed etnici. Li troverà verosimilmente nei curdi, che si sono presentati alle elezioni con un solo partito. Un’intesa fra Baghdad e il Kurdistan, potrebbe trovare l’appoggio della Turchia, che ha grandi interessi e influenza nella regione. Comporterebbe uno scambio fra l’entrata in un governo al-Maliki e concessioni sul petrolio del Nord del paese. Esso è collegato con un oleodotto alla Turchia e di qui al mercato internazionale.

LA FRAMMENTAZIONE DEL PAESE
Tale coalizione di governo mi sembra l’unica in misura di diminuire la probabilità della frammentazione del Paese, fra sciiti, sunniti e curdi. Non produrrà una riconciliazione nazionale. Ridurrà però il pericolo di una guerra civile come quella siriana. Richiederà un accordo di compromesso fra Ankara e Baghdad. Oggi esistono fra le due forti tensioni. Scomparso il sogno dei neoconservatori americani di avere un alleato moderatamente democratico in Medio Oriente, su cui centrare la stabilizzazione dell’Islam, l’Iraq costituirebbe un’importante pedina nel confronto fra l’Occidente e la Russia. Svolgerebbe un ruolo simile a quello che giocò l’Arabia Saudita negli anni Ottanta, con la riduzione del prezzo del petrolio che portò alla bancarotta l’Unione Sovietica. L’attenzione dell’Europa e del G-7 è centrata sul gas. Un eventuale regime sanzionatorio efficace dovrebbe esserlo sul petrolio. Senza la stabilizzazione dell’Iraq, l’arma petrolifera sarebbe però spuntata.


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