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Turchia, il Paese si divide sul futuro politico di Erdogan

Erdogan

L’allarme democrazia in Turchia lo lancia l’opposizione del premier Erdogan, che in vista delle prossime elezioni presidenziali di agosto teme che la “deriva Putin” possa essere replicata sul Bosforo. Un leader forte, decisionista e poco democratico, impegnato nella sua lotta ideologica per il potere e contro i social network, allergico alle proteste di piazza e ai contrasti interni. Ecco come il Paese potrebbe ritrovarsi definitivamente fuori dai giochi per l’Ue.

RISCHIO DITTATURA?
Non un uomo solo al comando, ma un leader che, così come molti osservatori hanno sottolineato da Gezi Park in poi, potrebbe aver strumentalmente utilizzato le promesse di democrazia e di europeizzazione, per costruire una sorta di feudo a vita. Dopo la netta vittoria alle elezioni amministrative di quaranta giorni fa, giunta dopo alcuni scandali e gli scontri violenti della scorsa estate, Recep Tayyip Erdogan ha deciso di tentare il grande colpo: puntare alla presidenza della Repubblica, dal momento che come premier non sarà più ricandidabile per via di una legge del suo partito che impedisce più di tre mandati.

CAPO DELLO STATO
Una dittatura di fatto la definisce il partito nazionalista Mhp, che fa il paio con l’insofferenza di Erdogan nei confronti dell’amico e sodale di un tempo, l’attuale capo dello Stato Abdullah Gul, più diplomatico e poco incline a gesti clamorosi come l’aver oscurato Twitter. Uno degli elementi che preoccupa gli osservatori in queste settimane riguarda il sistema costituzionale turco, che al proprio interno non prevede un regime di check and balance per stemperare l’eccessivo potere che si troverebbe nelle mani Erdogan come capo dello Stato. Una sorta di presidenzialismo de facto, simile a quello che intende realizzare il premier greco Antonis Samaras.

LA STAFFETTA PUTIN-MEDVEDEV
L’opposizione teme che sul Bosforo si replichi la staffetta andata in scena a Mosca tra Putin e Medvedev, con Erdogan impegnato, se eletto presidente, a nominare un premier debole e controllabile al fine di gestire la cosa pubblica senza intralci sino alle prossime elezioni politiche, previste nel 2015. E con un altro fronte caldo rappresentato dalla libertà di stampa e dalla convivenza complicata di Erdogan con i giornali maggiormente critici. Come osservato oggi da Eyup Can sulle colonne del quotidiano turco Radikal, un Paese senza una stampa libera e istituzioni inclusive non rafforza la democrazia stessa di quel Paese. Una contingenza che si sposa con le valutazioni di carattere macro economico che hanno caratterizzato la gestione Erdogan, con i 10mila dollari di guadagno pro capite ottenuti fino al 2008 a “segnare” il territorio a cui oggi fanno da contraltare le magre previsioni sul futuro, come dimostrano gli stop ai grandi lavori pubblici, imposti a Istanbul dai creditori mediorientali.

IL NODO TANGENTI
Ieri, dopo sedici ore di seduta, due ex ministri (Bayraktasr e Caglayan) si sono difesi dalle accuse dinanzi alla commissione d’inchiesta che a loro avviso non sarebbe legale. Il primo ha replicato dalla tribuna del Parlamento, mentre il secondo ha definito le accuse calunniose. Entrambi si erano dimessi, assieme a tre quarti dell’esecutivo, perché accusati di aver strutturato un complesso meccanismo tangentizio per spartirsi appalti pubblici nel Paese. In quell’occasione nel mirino della magistratura era finito anche il figlio di Erdogan, accusato di aver utilizzato una ong per distrarre fondi pubblici.



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