Fa impressione vedere in prima pagina del Corriere della Sera un errore su dati disponibili pubblicamente, addirittura di fonte Banca d’Italia, addirittura da parte di due economisti del calibro di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Certamente il Corriere farà la rettifica.
“mentre la spesa delle pubbliche amministrazioni, al netto degli interessi sul debito e degli investimenti, è salita rispetto al 2007 di oltre 4 punti, dal 44,1 al 48,5% del Prodotto interno lordo (Pil)”. Ohibò, i dati non mi tornano. Prendo la relazione del Governatore e trovo la tabella incriminata:
è la 13.5 di pagina 156.
Dove si legge che effettivamente un aumento dal 44,1 al 48,5 c’è stato ma è del totale della spesa corrente, compresa però la spesa per interessi. La riga sotto è quella al netto della spesa per interessi che volevano calcolare forse Alberto e Francesco e passa da 39,1 a 43,2 percento del PIL. Un aumento leggermente minore, ma, soprattutto dei valori più bassi, nel 2007 o 2013, della spesa pubblica di riferimento.
Perché so bene cosa ha tradito Alberto e Francesco: è l’ansia che ha ognuno di noi di trovare il dato più gradito per sostenere la propria tesi. E siccome da sempre la loro fissazione è che lo “Stato è enorme, abbattiamolo”, hanno saltato un riga, così. Succede. Anche se dovremmo sempre controllare i nostri più elementari impulsi.
Mi interessa molto di più entrare nel merito del loro argomentare e confutare pezzo per pezzo il loro ragionamento. Che si basa sull’opinione che: a) mentre i consumi privati non recuperano le spese pubbliche aumentano e b) che per salvare l’economia non ci vuole più domanda pubblica, nemmeno nella sua forma più nobile degli investimenti pubblici, ma sostegno ai consumi con minori tassazione.
I consumi privati crollano? Dalla crisi, ci dice la Relazione (e qui il dato citato da A&G è esatto) in termini reali di circa il 7%. E’ evidente: i redditi crollano perché si produce ed occupa di meno, la gente consuma di meno. Avessimo saputo come combattere questa crisi economica anche il dato sui consumi sarebbe stato migliore.
E la spesa? Alesina e Giavazzi, al di là del loro lapsus freudiano che li ha indotti all’errore, puntano il dito sull’aumento delle spese pubbliche. Strano modo di argomentare, il paragonare crolli dei valori assoluti reali di una variabile (i consumi privati reali) con l’aumento di una variabile in percentuale del PIL (la spesa pubblica al netto di investimenti e interessi): come paragonare mele e banane. Tanto più che siccome è il PIL ad essere crollato, se la spesa sul PIL sale non è perché la spesa è salita ma, come vedremo, perché quest’ultima è scesa, ma meno del PIL: e per fortuna, sennò staremmo qui a contare ulteriori diminuzioni del prodotto e dell’occupazione.
Ma procediamo lentamente. Anche guadando alla spesa in percentuale del PIL, a cosa è dovuta la salita da 39,1 a 43,2%? Non agli stipendi pubblici: sono scesi, addirittura anche in percentuale del PIL. La domanda pubblica di beni (farmaci, computer, ausili per disabili, benzina per le macchine della polizia ecc.) è salita dello 0,5% di PIL: il che ovviamente significa una riduzione in valori assoluti reali. E allora? Cosa è che spiega l’aumento della spesa pubblica in termini di PIL? Semplice. Le pensioni che sono cresciute dal 17% al 20,5%. Malgrado la riforma. Qualcosa di inevitabile.
Giavazzi ed Alesina giustamente non considerano nella spesa pubblica gli interessi: perché non generano ricchezza, sono un mero trasferimento (che non entra nel PIL), pressoché obbligatorio, dal cittadino contribuente al cittadino percettore. Esattamente come per le pensioni. Quello che conta per capire il cambiamento del peso, durante questa crisi, della presenza “attiva” dello Stato è la spesa pubblica per stipendi, beni, servizi ed investimenti. Che, badate bene, in una recessione dovrebbe aumentare per sostenere l’economia quando il settore privato va male. E cosa è successo dal 2007 a questo valore? In percentuale del PIL è sceso, dal 26,1% del PIL (includo anche le spese in conto capitale che non sono investimenti) al 25,5% del PIL.
Ovviamente in termini reali, e qui è il dato che Alesina e Giavazzi avrebbero dovuto utilizzare per fare un paragone quantomeno tra mele golden e mele annurche con i consumi delle famiglie, la spesa pubblica è calata molto di più. Qualche esempio? Gli stipendi pubblici dal 2007 al 2013 sono rimasti costanti in valore nominale, da 164,067 a 164,062 miliardi di euro. Gli investimenti pubblici sono calati da 36,139 a 27,166. I consumi intermedi sono saliti, da 79,94 miliardi a 86,86 miliardi, di circa il 10%. Ma il costo della vita in questi anni, a spanne, è aumentato del 14%: se facciamo il paragone dunque giusto, visto che Alesina e Giavazzi hanno correttamente depurato le cifre sui consumi delle famiglie dall’impatto dell’inflazione, significa che gli stipendi pubblici sono crollati del 14% circa in questi anni in termini reali, che addirittura anche di beni intermedi ne abbiamo comprati di meno, per non parlare del crollo reale degli investimenti pubblici.
Tutto ciò per fare chiarezza sui dati e per ricordare a tutti che questa crisi ce la dobbiamo tenere non solo perché abbiamo speso male ma anche molto ma molto poco per le risorse pubbliche che avrebbero potuto sostenere l’economia, come per gli appalti o per gli stipendi dati a chi li meritava ed ad alta produttività.
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