Chi non segue questo genere di vicende, si accorge dell’insurrezione dello Stato Islamico in Iraq (e Siria, acronimo ISIS), soltanto in questi giorni. La notizia che fa arrivare alle cronache la presenza di questo potentissimo gruppo jihadista – che opera in Iraq e in Siria, come il nome suggerisce – è la presa di Mosul, seconda città del paese, avvenuta martedì.
Conquistare Mosul è stato un passaggio cruciale, che ha permesso all’Isis di ampliare i territori controllati in Siria, presi mano a mano che ha portato avanti la lotta contro Assad, e quelli iracheni. Una fascia che finora andava dal nord siriano (in quell’area avrebbero rapito padre Dall’Oglio), fino al confine occidentale, allungandosi in Iraq: da Raqqa a Falluja, a Mosul e alla ricca provincia di Baiji (piena di pozzi petroliferi), e nelle ore in cui si scrive questo pezzo, arrivata a Tikrit (città di Saddam e Saladino) e parte della provincia di Kirkuk. (Per approfondire la prima parte di questa offensiva e sull’espansione del potere dell’Isis, qui).
Lo Stato Islamico è un gruppo combattente sunnita, ex affiliato ad al-Qaeda dalla quale ha deciso di dividere i propri destini a febbraio di quest’anno (se n’era già parlato anche su Formiche). (Nota: tutto quello che leggete, in cui l’Isis viene considerato ancora una organizzazione qaedista, è inesatto, poco studiato e approfondito, insomma chiudete la pagina e cercate di meglio). La scissione non è stata dolce: l’Isis ha accusato il capo centrale qaedista al-Zawahiri di apostasia (equivale ad una condanna a morte); in Siria, nelle area di Deir Ezzor, Isis e Jabhat al-Nusra (affiliazione siriana di al-Qaeda) combattono tra loro. All’inizio si pensava che “La Base” potesse avere la meglio, che lo Stato Islamico di sheik al-Baghdadi (è lui l’emiro, il capo supremo) potesse soccombere, potesse dissolversi anche per l’assenza della piattaforma di supporto internazionale, la rete di relazioni del terrore, che al-Qaeda s’è costruita nel tempo.
Ma così non è andata: diverse fazioni minori affiliate a Zawahiri hanno espresso il proprio sostegno allo Stato Islamico, anche sulla scia della potenza espressa sul campo dal gruppo. Potenza evocata anche fuori dal campo, con filmati e messaggi, soprattutto on line, che hanno fatto da concime per il reclutamento. Sempre più combattenti jihadisti si muovono da ogni parte del mondo per unirsi in Siria all’Isis.
In Iraq poi, il consenso è arrivato anche come reazione della minoranza sunnita: lo Stato Islamico nei suoi territori ha imposto la sharia, tuttavia fornisce assistenza primaria e garantisce la potenza suggestiva delle armi e della rivendicazione dell’identità. Per questo non è casuale che l’ingresso in alcune città sia stato accompagnato da festeggiamenti – emblematico il caso di Falluja, simbolo dell’invasione americana, dove i militanti dell’Isis sono entrati senza nemmeno combattere, a marzo, alla guida degli stessi mezzi statunitensi rubati all’esercito governativo: non serve spiegare la potenza simbolica del messaggio.
L’Iraq è guidato dal 2006 da Nuri al-Maliki, riconfermato dalle ultime elezioni del mese scorso. Maliki è sciita, membro del partito islamico Da’wa che prende origini dall’omonimo gruppo armato sciita. La gestione del governo non è stata certamente irreprensibile, e le colpe di Maliki ricadono anche sulla nuova ondata di settarietà che coinvolge il paese.
Maliki è sostenuto dagli Stati Uniti, che hanno speso già 25 miliardi (cifra stimata, da rivedere semmai) in supporto all’esercito iracheno dopo l’abbandono del 2011. Addestramenti da parte di unità specializzate dei Navy Seals, dei Rangers e della Delta Force; mezzi da combattimento, elicotteri, missili; finanziamenti. Tutto inutile: l’esercito iracheno è debole, superficialmente violento – molto spesso settariamente violento, da aggiungere – e impreparato.
Le truppe dell’Isis si spostano con movimenti da guerriglia, sono determinate, mettono in fuga i militari e gli rubano gli armamenti. Così rafforzano arsenali e narrativa, utili entrambi al proselitismo guerresco. Omar al-Shishani, ceceno capo di una folto gruppo di combattenti in Siria, è stato fotografato proprio nei pressi di Deir Ezzor, mentre saliva a bordo di un Humvee americano, rubato all’esercito iracheno, per andare a combattere al-Nusra (al-Qaeda) sul terreno siriano. (Complicato? È il Medio Oriente, bellezza).
A Mosul per fermare l’enorme offensiva, sono dovuti intervenire i guerriglieri peshmerga curdi: i soldati iracheni avevano levato le tende, alcuni prima ancora di combattere, insieme a migliaia di civili. Maliki sembra inerme – ricorrere ai curdi, d’altronde è un’extrema ratio – e gli Stati Uniti non possono garantire più di quello che stanno già facendo: un coinvolgimento militare è impensabile.
Martedì il premier ha richiesto lo stato d’emergenza, annunciando che il governo è disposto ad armare chiunque abbia intenzione di combattere i terroristi (non una gran trovata). L’esecutivo sta pensando al ritorno in patria dei miliziani sciiti, “mandati” assurdamente a difendere il regime di Assad in Siria: ma non è chiaro se basteranno. Secondo qualcuno cercherà aiuto in Hezbollah, sempre pronto a difendere le cause dei fratelli della fazione di Alì: ma anche le forze libanesi sono impegnate nel territorio siriano. Ci sarebbero gli iraniani allora, che sebbene abbiano anche loro Quds Force in Siria per addestrare i combattenti, disporrebbero di risorse molto più ampie. Realtà tutte piuttosto distanti dalla sfera di interesse e amicizie dell’America che si è fatta protettrice dell’Iraq di Maliki. Ma d’altronde, torna di nuovo la questione dell’intricata matassa mediorientale: amici che diventano nemici in certi campi, e viceversa.
Con Washington che dovrà chiudere un occhio su un intervento del genere, anche perché d’altronde altro non può fare. Il conflitto siriano sta restituendo una realtà terroristica di primaria entità: come fece quello libanese con Hezbollah nell’82 o come successe dopo la prima Intifida con Hamas. Lo Stato Islamico d’Iraq e Siria, è forte, preparato, potente: per il momento è fermo nel proprio obiettivo di ricostruire un califfato nello Sham, ma per Obama (e per tutti) occorre fermarlo in qualche modo, prima che metta nel proprio mirino anche interessi extra-regionali.