“Nunca mas”, mai più. Sessantaquattro anni fa i giornali brasiliani titolarono con queste due eloquenti parole il giorno dopo la disfatta della Seleçao ad opera dell’Uruguay. Il capitano della “celeste”, Obdulio Varela, che aveva guidato la sua squadra ad una impensabile vittoria e conquistato il secondo titolo mondiale, da quel 16 luglio 1950 non fu più lo stesso. Di fronte all’esplosione del dolore di un popolo si sentì quasi in colpa per averlo provocato. Il Brasile era disperato per sua responsabilità. Così credeva, ma così non era evidentemente. Gli dèi del pallone che talvolta si nascondono nei recessi più impenetrabili della foresta amazzonica, gli misero addosso una maledizione dalla quale non si riprese mai il mite, saggio, onesto Obdulio. Così come non si riprese mai dall’accusa di non aver parato i micidiali tiri di Schiaffino e Ghiggia, il grande portiere Moacir Barbosa Nascimento che fino alla morte, avvenuta il 7 aprile 2000, si sentì come un esule in patria. E’ stato forse il miglior portiere della storia brasiliana, superiore perfino al mitico Gilmar, ma la nazionale non la vide più dopo quel giorno maledetto. Visse nell’indifferenza generale e quando cercò di far visita ai giocatori del suo Paese prima della partita con l’Italia a Pasadena nel 1994, fu brutalmente respinto. Soleva dire che soltanto per lui in Brasile non c’era perdono. E pensare che non aveva nessuna colpa. Una tragedia perché forse gli dèi del futebol per un po’ si distrassero e volsero lo sguardo altrove, lontano dal Maracanà.
Friaca, autore del primo e unico gol brasiliano, pianse a lungo. Come i suoi compagni di reparto, un attacco atomico: Zizinho, Ademir, Jair e Chico. Sugli spalti dello stadio appena inaugurato gli spettatori cadevano come mosche. Fuori qualcuno moriva. Cinquant’anni fa il calcio divenne un sacrificio collettivo. Come soldati a Salamina, i brasiliani nelle vesti dei persiani sconfitti da Temistocle non ebbero la forza di reagire e ripiegarono nella sofferenza, fino al 1958 quando in Svezia sorse una nuova stella: era un ragazzo, non aveva ancora compiuto diciotto anni, si chiamava Edson Arantes do Nascimiento, il mondo lo avrebbe conosciuto ed osannato come Pelé. Con lui la lunga strada della rinascita si poteva finalmente intraprendere. Ed oggi il Brasile attende di riprendersi in casa sua ciò che gli fu tolto dal destino.
Gli dèi del futbol si riaffacciano dalle parti del Maracanà, ma anche dell’Arena de Sao Paulo dove debutta il Brasile con la Croazia. E le danze cominciano. Neymar non è Pelé, Hulk non è il divino Mané cioè Garrincha, Fred non è Vavà e Oscar non è Zagalo. Neppure Thiago Silva e Luiz assomigliano ai due Santos, Djalma e Nilton, ma il Brasile è il Brasile. Comunque. Le speranze si riaffacciano, giorno dopo giorno diventano certezze, le strade di Rio sono percorse da un’attesa fremente. E sono rumori di guerra quelli che si odono dal ritiro della Seleçao. Non confondiamoli con gli schiamazzi metropolitani. Nel centro del mondo che il Maracanà è oggi si assiepano sentimenti antichi e nuovi. Obdulio Varela, finalmente riconciliato con i suoi antichi avversari, in compagnia di Barbosa, darà il calcio d’inizio dal paradiso dove s’è ritirato diciotto anni fa. Almeno così ci piace pensare.