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La FCA di Marchionne è un modello per l’innovazione produttiva?

È immaginabile un futuro per Fiat Chrysler Automobile nel mercato mondiale? Ed è pensabile mantenere un tasso rilevante di capacità produttiva in Italia? La risposta agli interrogativi resta aperta e ricca di incognite, alla luce del progetto industriale di FCA. Un programma proiettato nel futuro e con un respiro internazionale pari al suo livello di rischio.

È questo l’esito del confronto promosso dalla casa editrice Il Mulino al Senato della Repubblica per presentare il libro “Made in Torino? Fiat Chrysler Automobiles e il futuro dell’industria”, scritto da Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano.

Due modelli a confronto

Una storia che fa emergere le divergenze esistenti tra modelli di relazioni industriali e sindacali statunitense e italiano. Ma anche un differente ruolo degli Stati nel favorire una storia imprenditoriale di successo. Perché l’iniziativa intrapresa dal governo USA ha contribuito a salvare e rilanciare due gloriosi marchi automobilistici in una fase di decadenza.

Ne è nato un gruppo industriale articolato su un’ampia gamma di modelli, che ha permesso la condivisione reciproca di un patrimonio di competenze e tecnologie. E ha consentito a Fiat di esportare più facilmente nel mondo le macchine pregiate Alfa Romeo, grazie alle reti produttive nordamericane.

Le sfide e i rischi del nuovo gruppo 

Un’operazione di cui l’artefice imprenditoriale Sergio Marchionne, ha rilevato il vice-direttore de L’Espresso Orazio Carabini, si appresta a raccogliere i frutti. Lo fa promuovendo un’offensiva ambiziosa nel mercato di qualità nei confronti delle grandi industrie tedesche Mercedes, Audi, BMW. Sfida che fino a oggi i tre giganti di autoveicoli giapponesi – Toyota, Nissan e Honda – hanno perduto.

Altro punto controverso legato alla strategia del combattivo manager italo-canadese è il trasloco del cervello legale e finanziario del gruppo al di fuori dell’Italia. Paese che, ricorda il giornalista economico, ha fornito in un arco di tempo secolare enormi risorse al Lingotto.

L’assenza di una politica industriale

Restio a ritenere l’ad di FCA un “capitano coraggioso”, il parlamentare del Partito democratico e presidente della Commissione Attività produttive di Palazzo Madama Massimo Mucchetti lo considera il frutto tardivo di un clima politico-culturale per cui le istituzioni pubbliche avrebbero dovuto astenersi dall’intervenire nel mercato industriale: “Logica in cui furono realizzate le fallimentari privatizzazioni degli anni Novanta”.

A giudizio del senatore democratico è paradigmatico il modo in cui in Italia è stato “risolto” il problema Fiat: “Nel 2002 il Lingotto era tecnicamente fallito. A quel punto la proprietà scelse di far intervenire gli istituti creditizi che, grazie alla regia del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, salvarono l’azienda con un impiego minimo di risorse. Salvo fuggire nella fase in cui avrebbero potuto avviare un grande progetto industriale. E soltanto allora gli Agnelli, tornati alle redini del gruppo, furono abili a individuare in Marchionne il nuovo ad”.

La strategia lungimirante degli USA

Al contrario, rimarca l’ex vice-direttore del Corriere della Sera, negli Stati Uniti di Barack Obama una moderna politica industriale riconobbe il tracollo di General Motors e Chrysler. Creò con un ingente esborso di fondi dei contribuenti un’articolazione in una bad company e in una new company, che nel caso di GM comportò una perdita finanziaria. Vincolò l’intervento massiccio dello Stato a un piano industriale che fu giudicato e negoziato con spirito pragmatico per 4 mesi.

Operazione che in Europa sarebbe stata ritenuta un indebito aiuto pubblico e perciò bocciata. Mentre Oltreoceano ha riscosso grande successo, grazie alle politiche economiche espansive promosse dal governo federale ma a costo di una dura ristrutturazione industriale.

Scarsa fiducia nel futuro automobilistico dell’Italia

Le prospettive produttive dell’Italia nel comparto automobilistico non appaiono rosee agli occhi dell’economista-parlamentare, visto che dalle oltre 900mila macchine create nel 2006 il nostro paese è passato a 300mila vetture nel 2013. Il tutto a confronto con una Germania in cui il tasso di fabbricazione è rimasto invariato grazie alla capacità di lavorare per le esportazioni.

Avendo saltato due cicli di rinnovo dei modelli e ridotto la spesa per gli investimenti progettuali, Mucchetti trova complicato saturare gli stabilimenti presenti nella penisola. È per questo motivo – osserva – che il governo deve attrarre i capitali di un gruppo straniero come si era profilato 5 anni fa con l’interesse di Volkswagen per Alfa Romeo.

La manifattura è ancora trainante per l’Italia

Per farlo, osserva il direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni Salvatore Rossi, è necessario recuperare la tenacia che caratterizza la storia e la cultura nordamericana fin dalle origini e che l’Italia seppe incarnare negli anni della Ricostruzione post-bellica. Esigenza tanto più essenziale in un paese che più di tutti in Europa ha sofferto la crisi: crollo del PIL industriale pari al 20 per cento a fronte della riduzione del 3-4 per cento nel comparto dei servizi.

Settore che oggi appare la galassia predominante nell’economia nazionale rispetto alle attività manifatturiere, equivalenti al 15 per cento del Prodotto interno lordo. Ma che rappresentano il vero traino per l’Italia, poiché creano i beni fondamentali per il settore terziario come rivelano gli strumenti avanzati presenti nel mercato delle comunicazioni.

Rinnovare per non morire

Per tale ragione, precisa l’esponente di Via Nazionale, il nostro paese deve utilizzare il proprio potenziale tecnologico attraverso un’efficiente organizzazione produttiva. Requisito preliminare per un’effettiva proiezione internazionale delle aziende.

È la sfida che FCA sembra accogliere e promuovere: “Non tramite l’esodo di attività imprenditoriali da molti denunciato, bensì ponendosi alla testa di una grande filiera industriale di respiro globale”.

Ragionamento condiviso dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: “L’Italia può esprimere le sue elevate capacità nel terreno manifatturiero se lo Stato aiuta le imprese a investire con spirito selettivo nei comparti più innovativi e promettenti dal punto di vista del mercato”.

Le riforme strutturali

Un clima che, evidenzia il capo del Tesoro, spetta al governo favorire rendendo trasparente la pubblica amministrazione, affermando la certezza del diritto tramite una macchina giudiziaria poco costosa, migliorando il mercato del lavoro, riducendo il peso del fisco sull’economia, accrescendo l’efficienza dei percorsi formativi e l’interazione tra scuola e lavoro, agevolando l’ingresso in Borsa e la capitalizzazione delle imprese. “È ciò che in fondo chiedono gli investitori di lungo termine da me incontrati negli Stati Uniti e in Gran Bretagna”.



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