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Perché gli Usa devono stabilizzare l’Irak con l’Arabia Saudita. Parla Giulio Sapelli

Fra crimini e atrocità contro la popolazione civile a maggioranza sciita e i militari dell’esercito, prosegue l’offensiva lanciata in Iraq dai guerriglieri sunniti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, il gruppo terrorista fautore della Jihad che punta a creare un Emirato islamico da Baghdad a Damasco. Un’avanzata che, archiviate le aspirazioni di rivoluzione democratica-liberale nel mondo arabo, rischia di mettere a repentaglio consolidati equilibri regionali.

Alle ripercussioni geo-politiche della polveriera irachena guarda con preoccupazione Giulio Sapelli, professore di Storia economica e Analisi culturale dei processi organizzativi presso l’Università Statale di Milano e osservatore delle crisi nelle realtà strategiche dal punto di vista energetico.

Perché è necessario intervenire per fermare l’ISIL in Iraq?

Le milizie integraliste dell’ISIL si richiamano apertamente al Levante. E spingono i confini del loro Stato islamista in Siria e Libano, mirando segretamente all’annessione di Israele. A riprova di uno scisma in atto nell’universo musulmano, che presenta alle proprie spalle una grande divisione fra arabi e persiani e tra potenze politico-religiose. Perché se gli sciiti fanno riferimento all’Iran, i sunniti godono della protezione di due Stati: l’Arabia Saudita e il Qatar.

Vi è il rischio di una spartizione degli Stati arabi mediorientali su basi religiose?

Sì, e non lo troverei scandaloso. Già le potenze coloniali francese e inglese avevano in mente tale soluzione quando un secolo fa fissarono a tavolino i confini delle nuove nazioni arabe. Rifiutando la prospettiva di una realtà unitaria panaraba che avrebbe comportato scontri fratricidi tra i differenti gruppi tribali. È il minore dei mali. E in fondo è ciò che ricerchiamo da tempo per risolvere il conflitto israelo-palestinese prospettando la ricetta dei “due popoli, due Stati”. Proposta che soltanto il “fondamentalista” premier di Tel Aviv Benjamin Netanyahu respinge.

Una vittoria dei jihadisti iracheni provocherebbe ripercussioni geo-politiche ed economiche per l’Occidente?

Senza dubbio. E sarebbero enormi. Viviamo in uno scenario di scarsità di offerta e raffinazione di petrolio. La Libia ha visto crollare la propria produzione di greggio. L’eventuale esportazione di shale gas e shale oil dagli Stati Uniti richiede una legge del Congresso, percorso lungo e laborioso. E non sarà sufficiente a soddisfare le richieste energetiche mondiali. L’Iraq è destinato a divenire una potenza petrolifera di primo livello.

Gli Usa devono intervenire per evitare tali conseguenze?

Certamente. Ma ciò non vuole dire agire soltanto o in via principale militarmente. Strada del tutto sbagliata, intrapresa dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel fallimentare intervento in Iraq nel 2003. Operazione cui ero e resto contrario. Il quadro odierno è molto più complesso rispetto all’epoca di Saddam Hussein.

Come è necessario agire allora?

Attualmente lo Stato iracheno è destrutturato. Pertanto bisogna operare sul terreno diplomatico, per rinegoziare e ridisegnare gli equilibri regionali. Il governo di Washington deve ricercare il consenso di Arabia Saudita e Iran. Convincendo la monarchia di Riad che la convergenza con Teheran contro l’ISIL, e l’eventuale revoca delle irragionevoli sanzioni in cambio di negoziati sul fronte nucleare, non si tradurranno in un cambiamento di fronte. Lo scopo è pacificare e stabilizzare l’Iraq con una ricetta di tipo ruandese.

Cosa è avvenuto in Ruanda?

All’indomani del genocidio del 1994, il capo del governo Paul Kagame – rappresentante dell’etnia Tutsi vittima dei massacri perpetrati dagli Hutu – ha creato un esecutivo di unità nazionale ispirandosi per le riforme economiche al “modello Singapore”. L’azione militare in Iraq è richiesta esclusivamente per neutralizzare i gruppi terroristi responsabili di crimini. Ed è necessario compiere un passo ulteriore.

Quale?

Gli Usa devono persuadere Iraq e Siria a riconoscere autonomia alle comunità curde. Unico fattore di stabilità, con le loro ricchezze petrolifere e un’articolazione tribale che garantisce l’ordine senza violenza e guerre sante.

L’Amministrazione Obama ha fissato un calendario di ritiro militare dall’Iraq.

Ma ha mai visto un ritiro preannunciato con tempi precisi? Agendo così gli Stati Uniti hanno offerto spazi e opportunità ai loro nemici. Mentre devono evitare gli errori tragici compiuti in Afghanistan, in cui stanno cedendo nuovamente il passo ai fondamentalisti. A Baghdad gli Usa hanno l’obbligo di restare, puntando sulla ricostruzione civile. Perché è lì che si gioca il futuro del mondo. Ricordando inoltre che in quella regione vi è lo Stato di Israele.

Teme un ripiegamento isolazionista di Washington?

Assolutamente sì. Nel mondo politico nordamericano vedo due tendenze in atto. Il Partito democratico manifesta una posizione oscillante e ambigua. Nel Partito repubblicano si va affermando la linea del Tea Party, fautore di una riduzione radicale delle tasse che rende impraticabile un ruolo egemone a livello mondiale.

Vi è una via di uscita?

Gli Stati Uniti dovrebbero recuperare la lezione e l’approccio di Henry Kissinger e della realpolitik. Una visione che avrebbe evitato i disastrosi interventi umanitari e unilaterali. Azioni come quelle compiute in Iraq, in cui oltre 10 anni fa venne sciolto l’esercito che costituiva il pilastro delle istituzioni statuali unitarie. E più recentemente in Libia, in cui l’abbattimento del regime di Muammar Gheddafi ha creato il terreno propizio per la “somalizzazione” del paese nordafricano. L’amministrazione statunitense deve capire che quei popoli presentano una secolare struttura tribale refrattaria al trapianto della democrazia politica.


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