Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Vediamo come la questione dello sfondamento del 3% si inserisce nel più grande quadro della crisi economica e finanziaria italiana.
Finora, il nostro Paese ha salvato il salvabile con l’aumento dei depositi, grazie ai privati, e le azioni di Outright Monetary Measures della BCE, che hanno schermato le nostre banche dalla possibilità di scommesse al ribasso e da pericolosissime (per lo Stato e per i privati) crisi di liquidità.
Le nostre banche hanno, comparativamente alle altre europee, una bassa profittabilità e manifestano un deterioramento della qualità dei prestiti.
E tutto questo riguarda, naturalmente, sia la bassa produttività del nostro sistema produttivo che la possibilità, per lo Stato, di rifinanziare ulteriormente l’espansione del suo debito.
Noi siamo ancora una economia a medio livello tecnologico, e quindi a produttività media o medio-bassa e a alto pericolo di concorrenza da parte dei Paesi Emergenti.
Dovremmo, in questi frangenti, rifinanziare le imprese per farle divenire entità ad alta tecnologia, ma o si danno soldi in prestito allo Stato, o al sistema produttivo. Non ci sono abbastanza fondi per coprire le necessità di entrambi. E non ci saranno, comunque vada l’operazione di “sfondamento” del tetto del 3% del rapporto debito/PIL.
La tabella del Documento di Economia e Finanza parla di un 2% di “avvicinamento” al limite del 3% con un +1,3% nel 2015, un +1,6% nel 2016, un + 1,8% nel 2017, e un +1,9% nel 2019.
Sono gli effetti del calcolo ideale delle riforme in corso d’opera sull’aumento del PIL e quindi sulla diminuzione del rapporto con il debito pubblico.
Si tratta soprattutto dell’aumento del PIL derivante dalle liberalizzazioni del mercato del lavoro.
Qui, si tratta di rendere più precario e fluido il mercato della manodopera, ma siamo sicuri che il processo di ulteriore precarizzazione del lavoro salariato aumenti la qualità dei prodotti (e noi viviamo di un export che si caratterizza, appunto, per la qualità) e aumenti anche la dimensione del mercato interno, senza il quale anche una politica di massicce esportazioni non “tiene” mai?
D’altra parte, si è sovrastimato anche l’effetto del taglio delle spese della Pubblica Amministrazione, che dovrebbe raggiungere addirittura un poco credibile totale di 32 miliardi di Euro. Dove e come? Con i prepensionamenti si sposta solamente la spesa pubblica da una posta di bilancio ad un’altra. Con i famosi “tagli lineari” di tremontiana memoria si rischia di far fuori la spesa pubblica utile insieme alla inutile.
E se a qualcuno venisse in mente la risposta giusta, ovvero che la maggiore spesa erariale è quella per il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico? Lo stock del debito è arrivato ai 2000 miliardi di Euro, mentre la spesa per gli interessi passivi è di 100 miliardi di Euro l’anno.
Difficile crederci, quindi, alle tabelle del DEF, che ricordano l’ottimismo di Pangloss, il filosofo che Voltaire ricalca sulla figura di Leibniz, nel Candide.
Ma allora, se queste cifre sono reali, come mai la previsione del rapporto debito/PIL è, nel DEF, in aumento rispetto al tasso del 2013, ovvero del 134,9% ? Se le riforme si fanno, dovrebbe essere subito visibile il loro effetto, anche minimo. Oppure si vogliono fare le riforme del mercato del lavoro tra due anni, facendo saltare completamente le previsioni suaccennate?
A proposito di precarizzazione del lavoro, se vogliamo mantenere una economia a medio livello tecnologico, avremo voglia di tagliare i salari ma ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi: la Cina, i nuovi Paesi del Sud-Est asiatico, il Brasile, perfino i paesi più poveri dell’EU a 29.
Se invece scegliamo di diventare una economia di export a alto livello tecnologico nei nostri settori tipici (le macchine utensili, l’agroalimentare, per esempio) allora aumenterà la produttività e non ci sarà necessità di comprimere i salari, con ulteriori costi di sostegno ai redditi minimi, Casse Integrazioni, etc. I bilanci vanno fatti con tutte le voci, non solo con quelle che ci piacciono o sono particolarmente cosmetiche.
L’idea poi che per evitare la tagliola del Fiscal Compact basti avere una crescita nominale annuale del 3% di cui 1% reale e 2% da inflazione, è davvero panglossiana.
Se si verifica realisticamente una crescita dello 0,6% come fa a quasi raddoppiarla in pochi mesi?
Detto tra parentesi, poi, l‘inflazione funziona quando non la si dice.
Nella migliore delle ipotesi, quindi, serviranno 45 miliardi di euro di tagli e/o nuove tasse. Il fatto è che i tagli colpiscono sempre qualcuno e, nelle democrazie contemporanee, votano tutti e, in Italia, in un contesto di precari equilibri di maggioranza. Quindi la via saranno le tasse.
Il problema è che, fin dall’inizio della “operazione Euro”, abbiamo gestito male le nostre carte.
Abbiamo accettato la moneta unica europea al fine di garantire la stabilità monetaria, la riduzione dei tassi di interesse, della fine delle crisi recessive derivate dal troppo deficit della bilancia dei pagamenti correnti. In cambio abbiamo garantito la stabilità dei salari reali, la riduzione progressiva del debito pubblico, l’avanzo dei conti pubblici pur con la riduzione del carico fiscale, la fine dell’economia mista statalista.
E allora, invece di andare verso l’espansione, peraltro tutta export oriented, il capitalismo italiano si è spostato verso i settori del mercato interno ancora protetti. E non si è protetta la piccola e media impresa che navigava a vista nel Nuovo Mondo delle esportazioni globali.
I limiti culturali erano ancora più evidenti: una cultura economica monetaristicamente ingenua, l’ abolizione di fatto di tutti i meccanismi di politica economica, anche di quelli ancora presenti nel sistema UE, l’ossessione di un Euro “alto” per fare un dispetto al Dollaro USA.
Come se ne esce? Ci vorrebbe una soluzione, di diritto privato, altrimenti arrivano le unghiate della signorina Unione, ovvero la creazione di una società per azioni alla quale viene conferito dallo Stato tutto l’immobiliare pubblico non ancora venduto o, più spesso, svenduto.
Gli immobili sono a valore reale. La società emette azioni o obbligazioni che vengono vendute in proporzione obbligatoria per ogni acquisizione dei titoli di debito pubblico, e una garanzia immpbiliare li renderà certamente più appetibili.
Tutto l’interesse dei titoli e parte di essi viene devoluto unicamente all’abbattimento del debito pubblico.
Quindi, senza infingimenti, per ora la Germania ha vinto su tutta la linea e anche il Governatore della BCE Mario Draghi ha ricordato nel suo discorso all’Eurogruppo che il fine immediato è “ridurre il debito”.
Per la Germania un Euro “indebolito” dagli ultimi della classe ha permesso a Berlino il superamento della Cina come saldo assoluto della bilancia commerciale, e si tratta, per l’Italia, di richiedere da parte di Berlino una forte patrimoniale, che trasferirà coattivamente nelle tasche dello Stato quel surplus di risparmio privato che ancora gli italiani detengono.
Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa