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I soldi e la passione. Il taccuino mundial di Gennaro Malgieri

Europa e Sudamerica si sfidano a distanza. Un tempo si sarebbe parlato di due “scuole” calcistiche allo specchio. Lo specchio si è rotto. Giocano tutti alla stessa maniera, come si è visto in questo Mondiale. E, a parte qualche eccezione, non è stato proprio esaltante, meno che le formazioni rimaste in lizza non riservino i fuochi d’artificio per la fase finale.

Intanto, archiviate le questioni tecnico-tattiche (e perfino strategiche), sembrano che tengano più banco della competizione le vicende di bagarinaggio nelle quali è coinvolto Neymar senior, insieme con gli ex-campioni Dunga e Carlos Alberto; il contratto dello stesso Neymar junior con il Barcellona le cui presunte irregolarità (a beneficio della famiglia del giocatore) hanno determinato le dimissioni del presente del club catalano, Sandro Rosell, messo sotto accusa da un socio minore del Barça, Jordi Cases; la sottrazione al fisco spagnolo di 4 milioni di euro da parte di Lionel Messi, per responsabilità del padre che ne cura gli interessi (l’affare sarebbe comunque già stato sanato); il dualismo tra le due stelle blaugrana che, soprattutto dall’esito dei mondiali, dipenderà in gran parte. Come è facile notare, il calcio giocato con tutta questa roba c’entra pochissimo. E non è improprio immaginare che i pensieri dei giocatori ruotino non soltanto attorno alle loro prestazioni, ma anche ad altri problemi.

E’ vero che il Barcellona avrebbe voluto far crescere Neymar, in modo da giustificare il faraonico esborso per il suo cartellino al Santos (che si è sentito gabbato) ed alla famiglia, per sostituire Messi e vendere questi (che non ha nessuna intenzione di muoversi da dove si trova) per la stratosferica cifra di 250 milioni di euro ad uno sceicco arabo o ad un magnate russo? Ecco, basta un interrogativo del genere a gettare nuova luce, una luce sinistra, sull’intero pianeta del calcio. E che i Mondiali brasiliani siano i mondiali segnati più di ogni altro dalle questioni extra-sportive, è indiscutibile, a cominciare dall’uso politico-finanziario che ne è stato fatto e che ha dato luogo a polemiche, proteste, conflitti e perfino alla messa in discussione della classe dirigente brasiliana a cominciare dalla presidente Dilma Rousseff, la quale spera più di ogni altro suo connazionale nel successo dei carioca per puntare nuovamente all’elezione.

Il calcio non vive più di sogni e di passioni, se non nella gente semplice che in ogni angolo del Pianeta non smette di amarlo. E gli oligarchi che lo governano sanno come manovrare le folle per far dimenticare gli interessi che amorevolmente e cinicamente curano. Un Mondiale non è soltanto una vetrina di stelle, vere o presunte, ma anche lo specchio nel quale si riflette l’immagine deformata di uno sport nato povero, praticato da spiriti semplici, ma geniali. Almeno fino ad un certo punto della storia.

Chi ricorda più, soltanto per fare un esempio che ci riporta ai primordi del football, e stride con la condizione presente, José Leandro Andrade? Era il mediano della nazionale uruguaiana, aveva ventinove anni quando vinse la prima Coppa Rimet, dopo aver vinto tre Cappe America e due Olimpiadi. Lo chiamavano “la maravilla negra”, bello, statuario, elegante e poverissimo. Cominciò a giocare per una bottiglia di vino ed un po’ di cibo. A Parigi nel 1924 conobbe Joséphine Baker, ebbe con lei una torrida relazione, ma restò il ragazzo umile di Salto e di Montevideo, l’anima del Bella Vista, del Nacional e del Penarol. Non divenne ricco, non barattò il suo genio con  contratti milionari: il calcio era tutto, ma le donne gli piacevano molto, almeno quanto la musica che ispirava i suoi passi in campo. Fu l’ospite d’onore ai Mondiali brasiliani del 1950 e portò fortuna alla Celeste. Poi il silenzio scese su di lui. Non volle fare il musicista, né l’allenatore, né il reporter. Cullò un sogno, il futebol, “aiutandosi” fino a perdersi con l’alcol. Nel 1956 lo cercò nei bassifondi di Montevideo il giornalista tedesco Fritz Hack per intervistarlo. Rispose alle domande attraverso sua sorella. Fu l’ultima volta che si seppe qualcosa di lui. Venne trovato morto il 4 ottobre 1957, in una lurida strada della capitale uruguaiana, stretto ad una scatola di scarpe contenente tutte le sue medaglie. Era il tesoro che gli restava, il solo che non avrebbe mai ceduto, più prezioso della sua stessa vita che gli venne strappata dalla tubercolosi.

La gloria di Andrade era in quei pezzi di metallo un po’ scuriti che oggi sembrano risplendere nei cieli sudamericani dove il calcio diventò, in un tempo lontano, poesia.


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