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Ecco il vero stato di salute dell’Inps

Una relazione onesta quella di Vittorio Conti, il commissario straordinario dell’Inps nominato dal governo Letta dopo la vicenda (un vero e proprio atto di terrorismo incruento dei media e di chi altro fu il mandante di una sordida operazione) che portò alla sostanziale destituzione di Antonio Mastrapasqua.

Conti è entrato in punta di piedi nel Palazzo di Via Ciro il Grande, ha gestito per alcuni mesi un “mostro” (il più mastodontico ente previdenziale d’Europa, probabilmente anche del mondo) e ora attende, a settembre, la scadenza del suo mandato, consapevole del fatto che il governo Renzi non si è ancora occupato della governance di un Istituto il cui bilancio è secondo solo a quello dello Stato, che interferisce con le attività di tutte le imprese e si introduce, con le prestazioni erogate, nella case di tutti gli italiani, spesso come unica fonte di reddito.

Perché l’Inps non è solo la “fabbrica” delle nostre pensioni (dei settori pubblici e privati), ma, con alcune decine di gestioni, casse e fondi, amministra gli ammortizzatori sociali, la previdenza minore (assegni al nucleo famigliare, indennità economica di malattia e maternità), gli sgravi contributivi, le prestazioni assistenziali, con un bilancio annuo che, sommando entrate ed uscite, si aggira sui 500 miliardi.

Nella sua relazione Conti rende noto il trend della spesa pensionistica rispetto al Pil: “Partendo dal 14% circa prima della crisi, il dato attuale è al 16,3, sarebbe arrivato oltre il 18% senza le recenti riforme, grazie alle quali si arriverà al 13,9 nel 2060. Tra il 2010 ed il 2060 nell’area euro il rapporto peggiora di 2 punti percentuali (di 1,5 per la UE27), mentre per l’Italia migliora di 0,9”.

In sostanza, la spesa pensionistica negli ultimi anni è cresciuta di 2,3 punti di Pil e, senza le riforme (Dio benedica Elsa Fornero!) oggi il Paese sarebbe lì a misurarsi con un dato insostenibile come un’incidenza del 18% del Pil (che avrebbe cancellato in un solo colpo gli effetti di ventennio di riforme).

Le anime belle sono lì pronte a ribadire: “Ma come ? Negli ultimi due anni, grazie alla manipolazione della rivalutazione automatica, ai pensionati sono stati sottratti 8 miliardi. Altri 5 miliardi saranno tagliati nei prossimi. E Conti viene a dire che senza le riforme il sistema pensionistico avrebbe corso dei seri rischi?”.

Il fatto è che il rapporto tra spesa e Pil è calcolato da una frazione: al numeratore sta la prima, al denominatore il secondo. Se la prima – come è normale – cresce nonostante i tagli e il secondo crolla, il rapporto si impenna (come è avvenuto negli ultimi anni di crisi). Le difficoltà dell’economia, poi, non si sono limitate soltanto a produrre guasti sociali che pure sono stati pesanti: quasi 1,5 milioni, nel solo 2013, i beneficiari di trattamenti connessi alla perdita del lavoro ed alla disoccupazione. In un solo anno, tra il 2012 ed il 2013, è stato di oltre 54 mila unità il saldo negativo delle aziende con dipendenti, mentre le posizioni lavorative sono diminuite di quasi 500 mila unità.

La crisi ha modificato profondamente la struttura del bilancio dell’Istituto azzerando qui colossali avanzi derivanti dalla gestione degli ammortizzatori sociali, per i quali – in condizioni di normalità – il prelievo contributivo risultava superiore alla spesa effettiva per alcuni miliardi (includendo nel conteggio le altre prestazioni temporanee). Così l’Inps, appesantito dai disavanzi ereditati dall’incorporazione dell’Inpdap, ipotizza per il 2014 un disavanzo d’esercizio di circa 8 miliardi (mentre la situazione patrimoniale è stata riportata in attivo grazie al soccorso della legge di stabilità 2014).

Quali sono le terapie indicate da Vittorio Conti. In verità ci è parso che, in proposito, ci fosse ben poco di nuovo sotto il sole. Siamo ancora ai discorsi che si facevano quando, in tutt’altro contesto economico, occupazionale e demografico, venne varata la riforma del 1995. Il principale difetto della legge n. 335 (la riforma Dini) consisteva proprio nell’aver scaricato l’equilibrio del sistema sui futuri pensionati, salvaguardando il più possibile, soprattutto sull’aspetto-chiave, dell’età pensionabile, gli occupati più anziani.

Tale impostazione veniva giustificata con l’alibi della previdenza complementare. Il giovane – si diceva – andrà in pensione a suo tempo con un tasso di sostituzione più basso? No problem – si aggiungeva – Perché potrà iscriversi ad un fondo pensione e colmare così il differenziale del trattamento pensionistico obbligatorio. Salvo dover constatare, ad anni di distanza, che l’aliquota obbligatoria del 33% per i lavoratori dipendenti (anche quelle dei parasubordinati e degli autonomi sono in crescita) non consente di avere un’adeguata base economica per la previdenza complementare. Tanto che solo il 23% degli aventi diritto partecipa ad una forma di previdenza complementare e pochi sono i giovani.

“Ipotizzando ad esempio – ha sostenuto Conti – di destinare a forme di previdenza complementare il trattamento di fine rapporto, integrato fino ad una contribuzione del 10,5% (di cui il 3,6% a carico del lavoratore e del datore di lavoro), il tasso di trasformazione lordo equivalente, per effetto della rendita aggiuntiva, potrebbe migliorare dai 14 ai 19 punti, a fronte di rendimenti attesi lordi rispettivamente nell’ordine del 2-4%”. E’ sicuramente tutto vero. Salvo porsi necessariamente alcune domande: quanti sono i lavoratori che non dispongono del tfr e che non possono quindi destinarne l’ammontare alla previdenza a capitalizzazione? E come possono allora avvalersi del secondo pilastro?

E’ sostenibile, infine, un sistema che, tra la quota obbligatoria e quella volontaria, assorba il 43,5% del costo del lavoro per assicurare un trattamento dignitoso? Ben venga allora la busta arancione a ricordare a tutti il loro destino da pensionati. Ma non sarà questo strumento, a lungo atteso, in grado di moltiplicare i pani e i pesci.

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