Prima o poi doveva accadere. Inutile drammatizzare facendo finta che nessuno si attendeva un epilogo tanto dirompente. Il Brasile, semplicemente, in questo Mondiale non c’è mai stato. Lo abbiamo detto e ripetuto per un mese. Ad ogni prova i verdeoro mostravano lacune difficilmente colmabili. Privi di idee, di gioco, di personalità hanno tentato come hanno potuto di colmare il gap evidente che tutti vedevano, ma pochi denunciavano. Le personali invenzioni, il non proibitivo girone eliminatorio, la stentata vittoria sul Cile dopo i calci di rigore, l’ancor più complicata eliminazione della Colombia nei Quarti finale non sono bastati per andare avanti, fino al Maracanà dove il Brasile avrebbe dovuto vendicare l’”affronto” del 1950.
I limiti oggettivi di una difesa sbandata e di un attacco che non è riuscito ad esprimere neppure una giocata corale affidandosi completamente a Neymar fino a quando non è stato “eliminato” da un intervento falloso di Zuniga che nessuno ha sanzionato e poi le scelte davvero incomprensibili di Scolari, unitamente alla sciocca superbia di leaderini in campo che hanno agitato la bandiera della “religiosità” calcistica carioca per colmare il deficit tecnico-tattico di tutta la squadra, sono stati gli elementi sui quali è stata meticolosamente costruita una disfatta dalla quale la nazionale che faceva tremare il mondo ci metterà molto tempo prima di riprendersi. Passeranno generazioni che si tramanderanno il racconto dei fantasmi tedeschi calati a Belo Horizonte con la missione di distruggere un “mito”.
E già, di questo si è trattato. Il risultato di 7 a 1 per la Germania non è neppure eccessivo, se si considera la caratura di una squadra vera, costruita nel corso del tempo per vincere senza sconti contro chiunque, a maggior ragione contro fragili ed intimiditi giocatori a cui nessuno ha insegnato nel corso degli ultimi dieci, quindici anni il calcio brasiliano, che è una variazione artistica della poesia, della letteratura, della geometria, dell’armonia applicate allegramente alla corsa con la palla al piede verso la gloria di gol inevitabili.
Il Futebol è (era) la vita del popolo per duecentomila brasiliani. Adesso quella rappresentativa chi la riconosce più? Che cosa hanno di brasiliano i giocatori che abbiamo visto sgambettare senza costrutto, con disagio e forse un bel po’ di vergogna a fronte della granitica Germania come di altre compagini di minor caratura? Un bel niente. Non sono più neppure brasiliani, se non diritto di nascita. Calcisticamente non hanno niente a che vedere con la grande tradizione della Seleçao. Se ne sono andati a cercare fortuna altrove, perfino nei più sperduti club europei, oltre a quelli ricchi e blasonati, ed in qualcuno asiatico o arabo. Si sono “costruiti” altrove, lontani dall’aria magica che ha ispirato i predecessori. Non si conoscono neppure tra di loro, nel senso che raramente gli capita di giocare insieme. Ed hanno invece assimilato tecniche estranee al modo stesso di concepire il gioco. I vivai si sono spenti, le società non investono, ma realizzano utili vendendo giovanissime promesse che in poco tempo dimenticano quel che hanno appreso dalla strada o frequentando i campetti di periferia, non parla più brasiliano (si dovrebbe dire portoghese, ma il linguaggio dei piedi che calciano è profondamente differente) il football, ma un gergo universale, globale, indifferenziato. Il Brasile è stato sconfitto per aver perduto la propria identità.
Lo stesso discorso varrebbe per l’Italia ed altre gloriose nazionali, come l’Inghilterra, ma ci porterebbe lontano. Aggiungo soltanto che quando si perdono i connotati, quando si smarrisce il carattere, quando si espunge dalla propria storia la cultura che l’ha formata – ed il calcio è una delle forme culturali più estese e radicate del nostro tempo perché autenticamente popolare – non si può che andare incontro a disfatte come quella a cui abbiamo assistito. Rivolgersi alla stessa Germania, per comprendere quel che ha patito e come è riuscita a risalire uno dopo l’altro i faticosi scalini della rinascita. Era all’apice nel 1990, ultimo campionato del mondo vinto a Roma, contro l’Argentina, una bruttissima partita che ricordo per un irritato Maradona ed il rigore di Brehme. La guidava Franz Beckenbauer. Poi calò il sipario. Piazzamenti prestigiosi e nulla più, se si eccettua il Campionato d’Europa nel 1996. Era tempo di ricostruzione. Ed uomini come Klinsmann e Low hanno riportato la Germania ai fasti d’un tempo, con l’appoggio determinante di una Federazione che ha saputo investire su giovani talenti tedeschi creando una scuola d’eccellenza e, non a caso, la grande migrazione è cessata. Adesso si acquista, ma con moderazione. I grandi club che non sono in regola con le norme federali e con le leggi dello Stato portano i libri in tribunali ed i dirigenti vanno in galera. Non accade che undici giocatori di nazionalità diverse vadano tutti contemporaneamente in campo e giochino per una società “tedesca” solo nel nome e nell’assetto societario.
In Francia si sta tentando lo stesso esperimento. In Turchia gli stranieri in campo non possono essere più di cinque contemporaneamente e tre soltanto in panchina. Segnali di rinascita dei movimenti calcistici nazionali. Quando il Brasile realizzerà che non avrebbe sognato dopo la sottomissione a Varela, Schiaffino, Ghiggia sessantaquattro anni fa, se i Gilmar, i Santos, i Pelé, gli Zagallo, i Garrincha, i Rivellino, i Tostao, e via elencando fossero andati via, conquistando mercati dove avrebbero realizzato fortune imponenti, la leggenda carioca non sarebbe mai fiorita.
Se non capiranno i brasiliani, in questo momento di dolore, che la globalizzazione calcistica li ha privati della sola gioia nazionale che potevano vantare, il magico futebol, potranno al massimo consolarsi con i loro campioni avvinghiati a splendide donne sulle riviste patinate di tutto i mondo, ma devono capacitarsi che il calcio è un’altra cosa. Anzi, è tante cose che, come le lacrime di Belo Horizonte ci fanno capire, trascende l’esito di una partita e diventa parte di una memoria collettiva. Nel bene e nel male.