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Perché Israele è la terra promessa delle start-up

Le cronache ci parlano di uno Stato ebraico stretto nella morsa delle aggressioni esterne di marca integralista-terroristica e di una reazione militare priva di respiro politico, rabbiosa e tragica allo stesso tempo. Ma la realtà di Israele va ben oltre la crudele contabilità del dolore che connota il conflitto armato con Hamas.

Un’economia modello

Perché la giovane nazione mediorientale può vantare una concentrazione mondiale di eccellenze nel terreno dell’imprenditoria innovativa. E presenta un numero di start-up – frontiera della sperimentazione in gran parte creata da giovani under 30 – superiore a quello di Cina, Gran Bretagna, Canada, Giappone, India.

È questo il ritratto del paese nato del 1948 emerso nel corso del convegno “Israele: la terra promessa dell’innovazione. Start-up, finanza e ricerca. Quali prospettive per l’Italia?”, promosso dall’Accademia internazionale per lo sviluppo sociale ed economico e dall’organizzazione Diplomatia in collaborazione con Ernst&Young presso la Pontificia Università Lateranense a Roma.

Il miracolo di Israele

Realtà più piccola della Sicilia, con 8 milioni di abitanti di cui 2 milioni arabo-israeliani, minacciata da aggressioni e terrorismo. Ma in grado di porsi ai primi posti nel pianeta, alle spalle dei soli Stati Uniti, nelle nuove tecnologie: telecomunicazioni cellulari, videocamere ad alta qualità, software informatici.

Paese capace di registrare un tasso di crescita medio del 3,5 per cento annuo – il migliore nell’area OCSE – con un Prodotto interno di circa 300 miliardi di dollari e un livello di disoccupazione tra il 6 e il 7 per cento.

Le risorse dello Stato ebraico

Le ragioni di uno sviluppo raro nel panorama occidentale vengono messe in luce dall’ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon:  “Grazie alla riscoperta del nostro capitale umano e alla capacità di reinventarci continuamente dovendo fronteggiare pericoli di ogni natura, siamo riusciti a trasformare le avversità e le fragilità in punti di forza”.

Si comprende facilmente perché la metà della produzione industriale israeliana sia costituita da aziende hi-tech e medium-tech, e il valore delle start-up nel 2012-2013 ammonti a 12 miliardi di dollari. Risultato ottenuto anche grazie all’investimento del 4,25 per cento del PIL in attività di ricerca e innovazione, rispetto al 2,33 della media OCSE e a poco più dell’1 per cento registrato in Italia.

Il ruolo della difesa

Tuttavia uno sviluppo economico tanto innovativo non sarebbe pensabile senza due pilastri dello Stato ebraico.

Il primo è rappresentato da un apparato di difesa militare essenziale per la sopravvivenza di Israele, e fondamentale per l’emancipazione di ampi strati sociali della popolazione a partire dalle generazioni di immigrati da altri paesi. Si tratta di un patrimonio di strutture e professionalità altamente specializzati e orientati sul piano tecnologico, come rivelano i “missili intelligenti” in grado di intercettare e neutralizzare i razzi lanciati dai gruppi fondamentalisti arabi e palestinesi.

Le ricadute di una simile infrastruttura nel terreno civile e industriale sono evidenti in oltre la metà dei casi. Per questa ragione l’economia nazionale continua a crescere anche nelle fasi di guerra.

Il valore di un’università moderna

L’altro caposaldo della vitalità del tessuto imprenditoriale israeliano – spiega il diplomatico – è un’università guidata dal principio dell’utilità economica delle ricerche accademiche. Attività che nei due principali atenei dello Stato con la Stella di David valgono 10 miliardi di dollari. A riprova di un ecosistema propizio all’audacia, per il quale fallire non rappresenta una dramma ma un’opportunità.

Ragionamento ripreso da Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto Tecnologico Italiano attivo da diversi anni nel paese mediorientale. Gli scienziati israeliani – osserva lo studioso – sono capaci di fare di più con meno, e non soltanto nel terreno tecnologico-telematico ma anche in quello agroalimentare e farmaceutico.

“E ciò è possibile perché le loro istituzioni hanno saputo mettere in atto una visione cui improntare l’educazione, il credito, la burocrazia, le reti di telecomunicazione, il valore economico dei brevetti. Con il coraggio di rischiare, valutare, investire risorse pubbliche e private”.

Un paragone impietoso

Caratteristiche storicamente carenti nel panorama italiano, come ribadisce il responsabile Goverment&Public Sector di Ernst&Young Dario Bergamo: “Nell’area del G20 il nostro paese si colloca al penultimo posto per clima favorevole al business”.

Le sfide che ci attendono sono quelle affrontate e vinte dallo Stato ebraico: “Creare strumenti ad hoc e più innovativi di accesso al credito, in grado di accompagnare le tappe di sviluppo di un’impresa. Affermare una cultura imprenditoriale soprattutto per le realtà più giovani e innovative. Promuovere un regime fiscale semplice e calibrato sulle esigenze aziendali. Costruire una rete formativa permanente vicina al mondo produttivo”.



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