Continua la crisi in Medio Oriente tra Israele e Hamas. Dopo un’escalation di violenza e bombardamenti reciproci durata giorni, in mattinata il governo di Tel Aviv aveva approvato la proposta egiziana di cessate il fuoco, rifiutata invece dal gruppo palestinese che ha lanciato razzi verso il territorio dello Stato ebraico dando nuovamente il via alle ostilità dopo sei ore di tregua.
Mosse che secondo Benedetta Berti – lecturer delle università di Tel Aviv e Ben Gurion, associate fellow dell’Institute for National Security Studies e autrice del libro “Armed Political Organizations: From Conflict to Integration” – vanno interpretate tenendo conto di strategie, obiettivi ed alleanze contrapposti, analizzati in una conversazione con Formiche.net.
Perché Hamas non ha accettato il cessate il fuoco dopo che Israele lo ha fatto?
Israele ha accettato da subito il cessate il fuoco sia perché una parte dell’opinione pubblica è contraria a un’operazione di terra che teme possa rivelarsi pericolosa come nel 2008 con Piombo fuso, sia perché dal punto di vista militare non è chiaro cosa si possa ottenere andando sul terreno per un tempo limitato. Hamas invece ha una situazione complicata al suo interno, accentuata dalle sue difficoltà economiche. Vuole che il cessate il fuoco arrivi strappando le condizioni più favorevoli possibili, come meno restrizioni alla frontiera e il rilascio di alcuni prigionieri, in modo da poter dire a Gaza che l’accordo è stata una vittoria.
Un’operazione sul campo da parte di Tel Aviv è plausibile?
I piani per condurla ci sono, ma per il momento non c’è molto interesse a farlo, perché non è chiaro a cosa porterà. Una occupazione per lungo tempo è esclusa, perché non trova il favore di nessuno. Di contro, intervenendo per poco tempo non si riuscirebbe a smantellare del tutto l’arsenale di Hamas. Quindi per Israele l’unico obiettivo rimarrebbe un downgrade delle capacità militari del gruppo palestinese.
Hamas è indebolito o rafforzato rispetto al passato?
Dal punto di vista economico e delle alleanze è sicuramente meno forte del recente passato. Tuttavia il suo arsenale, come emerge in queste ore, è di tutto rispetto. Molti razzi vengono prodotti in loco, proprio a Gaza e dintorni. Per questo Israele fa bene a non sottovalutarne il pericolo. E’ una domanda che si pongono anche a Tel Aviv. Il dibattito su questo è molto polarizzato. I partiti di destra, quelli più militanti, fanno leva sulla superiorità militare di Israele non accettando alcuni ricatti; quelli più progressisti invece auspicano un maggiore dialogo perché comunque si rendono conto che pur senza molte vittime, la popolazione civile non vive affatto bene in questo permanente stato di tensione.
Chi sostiene maggiormente Hamas e con quali mire? Diversi analisti hanno sottolineato come a finanziare le attività del gruppo sunnita siano Paesi sciiti come Iran e Qatar.
La maggior parte dell’arsenale più sofisticato di Hamas viene dall’Iran, che è storicamente il primo finanziatore sia del gruppo palestinese sia dei libanesi di Hezbollah. Il Qatar è anche un finanziatore, ma solo economico. Mentre la Turchia per ora si è limitata ad esprimere un supporto politico attraverso alcune dichiarazioni. Le ragioni per le quali Teheran finanzia Hamas sono di natura puramente politica e non ideologico-religiosa, per cui la distinzione tra sunniti e sciiti lascia il tempo che trova. All’Iran interessa il programma di Hamas e la sua attività contro Israele. I soldi arrivano poi anche attraverso altri canali come l’autofinanziamento (tasse e proventi dal traffico lecito e illecito attraverso i tunnel) e alcune donazioni provenienti anche dal Golfo. Ma oggi Hamas ha meno alleati che in passato. All’appello manca ad esempio l’Egitto.
Quanto pesa nella crisi di Hamas il deterioramento nei rapporti con l’Egitto, che pure è stato chiamato a fare da mediatore nella crisi?
Tra tutte le cose che ha danneggiato nei due anni precedenti Hamas è la perdita del sostegno del Cairo di cui godeva quando al governo c’erano Mohammed Morsi e i Fratelli Musulmani. Un danno politico, ma soprattutto economico, a causa della chiusura della frontiera e dei tunnel che assicuravano ad Hamas beni di prima necessità, energia a basso costo e che servivano anche a portare avanti alcuni traffici poco trasparenti con cui il gruppo si finanziava. Invece ora non solo le dichiarazioni pubbliche della politica egiziana gli sono ostili, ma Hamas è stato classificato dal Paese come gruppo terrorista.
Da tempo si parla di un accordo stipulato tra Hamas e Fatah. Cosa c’è di vero?
Tra i due non corre buon sangue, anzi, potrei dire che le relazioni sono tese. Dal punto di vista ideologico e di rapporto tra le varie personalità non c’è intesa, anche se ognuno rincorre degli obiettivi politici che possono talvolta convergere.
Come si intreccia quel che accade nella Striscia di Gaza con l’ascesa dell’Isis e il suo califfato? Esiste una strategia sunnita di destabilizzazione dell’area?
Non so se c’è una strategia, ma ciò che accade in Irak costituisce sicuramente un problema molto forte. Dal punto di vista di Israele c’è poi un problema aggiuntivo. Se Hamas dovesse perdere il potere a Gaza, chi prenderebbe il suo posto? L’ascesa dell’Isis e il ruolo del radicalismo nella regione rendono la scena ancora più complicata.
Uno degli aspetti più discussi di questo conflitto (di cui ha parlato il direttore di Italia Oggi, Pierluigi Magnaschi) sono i suoi sviluppi sui social media.
Sia le forze militari israeliane sia Hamas sono presenti su social network come Twitter e Facebook. Addirittura le brigate Ezz Al-Din Al Qassam, l’ala armata di Hamas, hanno aperto un account in ebraico per parlare direttamente agli israeliani. Questo instaura dinamiche nuove e interessanti nella gestione non solo del conflitto, ma anche della sua comunicazione e di come questo arriva all’opinione pubblica.