Youssef al-Idrissi è l’uomo che, ad aprile di quest’anno, ha sostituito il principe Bandar bin Sultan al vertice del Mukhabarat Al A’amah, i servizi segreti sauditi. Un lavoro complicato, che Idrissi conosceva bene e da vicino: era il vice di Bandar.
L’esperienza lo aveva già messo a conoscenza dei pericoli intorno al suo paese. Ma davanti alla potenza e alla velocità con cui quei pericoli sono cresciuti in questi ultimi mesi, non c’è esperienza e preparazione che contano.
Complesso – anche se di indizi ce n’erano – prevedere che arrivassero tutti insieme e senza il minimo di ostacoli: la conquista del potere dello Stato Islamico, la fondazione del Califfato, il rischio di una guerra totale. Per quanto il malgoverno di Maliki, con il conseguente rinfiammarsi di sentimenti settari nel paese, fosse notoriamente conosciuto. Così come era stata già valutata la debolezza dell’esercito iracheno e misurata la forza dell’allora ISIS, sia in Iraq che in Siria. Tuttavia non solo a Riad, ma anche nel resto del mondo, non ci si sarebbe di certo aspettati la presa di Mosul con tanta rapidità e facilità. Pensare poi a quello che è venuto dopo, sarebbe stato fare analisi fantascientifiche; e invece.
Ma oltre ai problemi che arrivano da nord-est – e che riaprono una questione mai sopita in Arabia Saudita, e cioè quella del rapporto con il terrorismo islamico (e con le relazionali infiltrazioni) – il pericolo si ingrossa anche a sud. In Yemen, l’Aqap – affiliazione qaedista nata per combattere gli interessi della “Base” nella Penisola Araba – è ormai in guerra contro l’esercito regolare. Conflitto che, per quanto conosciuto, rischia di dare il via a pericolosi sconfinamenti: l’ultimo ad inizio luglio, quando i qaedisti hanno attaccato un posto di frontiera, uccidendo un border patrol saudita e un militare yemenita.
L’Arabia si trova in mezzo tra IS e al-Qaeda, stretta in una sorta di campo diagonale, dove le due principali realtà islamiste vogliono giocare la partita. Già, perché quelle realtà si dà il caso che siano anche in conflitto tra loro. Alcuni analisti locali, hanno letto per esempio nell’attacco di una ventina di giorni fa a quel posto di frontiera, la volontà del gruppo fondato da Bin Laden di tornare a far sentire il proprio peso nella regione.
Lo scontro – che si gioca anche sui social network, come ormai la jihad 2.0 ci ha abituato – può portare sia Aqap che Is a condurre operazioni all’interno del territorio saudita. Da un lato lo Stato Islamico, che con le parole del Califfo Ibrahim ha chiesto a tutti i jihadisti di riunirsi e a tutti i musulmani di sottomettersi; dall’altro l’Aqap, braccio ancora fedele di un’organizzazione centrale comunque indebolita (così come lo è la leadership di al-Zawahiri), con il quale al-Qaeda cerca nuove affermazioni della sua esistenza e rivendica il ruolo di primo piano nella jihad internazionale.
Riad presidia i confini: gli Stati Uniti, storico alleato, hanno ben altro a cui pensare, e poi il dialogo con l’Iran attorno al tavolo sul nucleare ha un po’ raffreddato i rapporti; allora il re Abdullah ha deciso di pensarci da solo, piazzando 30 mila soldati a presidio delle zone di passaggio (decisione quasi visionaria, in quanto presa il 3 luglio, il giorno prima dell’attacco alla frontiera yemenita).
Ma non basta: c’è di più. Il problema formalmente arriva sempre dallo Yemen, dove la guerra dell’Aqap si accompagna alla rivolta sciita degli Houthi, che ad inizio luglio hanno conquistato il controllo sulla città di Arman e di buona parte del suo Governatorato (dove vivono quasi un milione di persone), uccidendo centinaia di persone e producendo oltre 35 mila sfollati. Nel 2013 John McCain dichiarò che per lo Yemen la minaccia houthi è più pericolosa di quella qaedista, visti i legami che questi combattenti tribali hanno con l’Iran.
L’Iran, appunto. Conoscendo l’agenda di Teheran nella regione, McCain di troppo non si sbagliava certo. La questione si fa ancora più problematica, se si pensa che in questo momento, il pericolo iraniano, conosciuto a sud via Houthi, arriva anche da nord, dall’Iraq, ripercorrendo quello stesso asse diagonale degli islamisti. Le forze iraniane sono presenti con buon organico e pieno regime nel territorio iracheno a sostegno degli imbelli uomini di Maliki. Hanno raccolto e armato le milizie sciite per combattere l’avanzata dello Stato Islamico; forze che insieme ai Quds inviati stanno costruendo la strategia di difesa/attacco al Califfo. Per il momento sono impegnate, poi chissà: è indubbio comunque, che il massiccio aiuto inviato dall’Iran, si porterà dietro una pressione e un’influenza ancora maggiori di quelle esercitate finora su Baghdad. E tutto avviene sotto gli occhi di Riad.
Oltre ai propri militari, i sauditi si fanno forza con le alleanze tribali locali – realtà enorme nelle regioni mediorientali, molto spesso sottovaluta nella semplificazione occidentalistica delle dinamiche politiche dell’area.
In Iraq, l’alleanza porta il nome di Ali Hatem al-Salman, potente sceicco della tribù Dulaim, sunnita, ex anti-qaedista, oppositore ferreo delle politiche di Maliki. Il rischio che i sunniti iracheni strizzino l’occhio all’IS è calcolato (e già registrato), per questo Idrissi ricorre a pochi fidati amici. Come quelli in Siria: Ahmad al-Jarbe della tribù orientale Shammar e Abdullah al-Bashir, il capo del personale del Free Syrian Army, membro della tribù Naim a Daraa. Anche in Yemen la radicazione saudita passa dalle tribù: in questo caso Riad ha stretti e duraturi legami con la tribù Hashid, che controlla politicamente i territori intorno a Sanaa.
Sostenere certe tribù locali sunnite, mantenerne rapporti, rispetto, autorevolezza, è l’unica carta ancora in mano ai sauditi per far valere la propria influenza in Iraq, dove lo stato di fatto è crollato e i territori sono in mano ai potenti gruppi locali. In Yemen la situazione è leggermente migliore, ma anche lì il Regno preferisce fidarsi dei suoi amici, piuttosto che dei governi.