Domenica 10 agosto, si terranno in Turchia le elezioni presidenziali. Per la prima volta il presidente sarà eletto direttamente dagli elettori. L’ha voluto Recep Tayyip Erdoğan, primo ministro dal 2003 e dal 1° luglio candidato ufficiale alla presidenza del Partito islamico moderato (AKP).
Inaspettatamente, esso ha avuto un successo superiore a ogni previsione alle elezioni amministrative del 30 marzo scorso. Ha ottenuto il 45% dei voti, vincendo anche a Istanbul e Ankara e stravincendo nelle regioni rurali dell’Anatolia.
L’esito delle elezioni è scontato. Erdogan sarà eletto presidente. I suoi due oppositori non hanno alcuna possibilità di vittoria, neppure in caso di doppio turno. Sono da un lato l’ex-segretario dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, la cui candidatura è sostenuta da un’innaturale coalizione fra kemalisti, nazionalisti e tre partiti minori. I sondaggi l’accreditano con il 27% dei voti. Il secondo candidato rappresenta il partito curdo.
L’elettorato di riferimento di entrambi è frammentato. Parte degli alevi (dai 7 a 13 milioni), tradizionale bacino elettorale del Partito Repubblicano del Popolo (CHP), sembrano orientati a votare per il candidato del partito curdo “della pace e democrazia” (BDP), poiché il candidato della coalizione è un convinto e praticante sunnita. Molti curdi (complessivamente 15 a 20 milioni sul totale della popolazione turca) voteranno a favore di Erdogan, che ha promesso loro una maggiore autonomia.
Se l’esito finale delle elezioni è scontato, non è sicuro che Erdogan superi il 50% dei consensi, necessario per essere eletto al primo turno. Se ottenesse una vittoria schiacciante, si accelerebbe la realizzazione del suo programma di trasformazione della Turchia in una repubblica presidenziale e l’autoritarismo.
Se fosse costretto al ballottaggio, accadrebbe il contrario. Si attenuerebbe anche l’autoritarismo e l’insofferenza verso ogni opposizione, che ha caratterizzato gli ultimi anni del governo Erdogan. L’unico candidato che avrebbe potuto sfidarlo con qualche probabilità di successo, sarebbe stato l’attuale presidente Abdullah Gul, cofondatore dell’AKP. Ma ha rinunciato a presentarsi. Lo ha fatto per non spaccare l’AKP o perché punta ad un’alternanza, simile a quella fra Putin e Medvedev in Russia, divenendo primo ministro.
L’elezione diretta darà a Erdogan un peso politico maggiore di quello dell’attuale presidente, che ha sostanzialmente un ruolo cerimoniale e di rappresentativo. Comunque, per realizzare le sue ambizioni di revisione costituzionale e trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale, Erdogan dovrà ottenere una maggioranza di due terzi, nelle prossime elezioni legislative.
La campagna elettorale non ha registrato i toni accesi di quella di marzo. In quest’ultima, aveva dominato un duro scontro politico, non tanto fra l’AKP e il il CHP, quanto fra Erdogan e coloro che lo accusavano di corruzione (unitamente a molti suoi ministri ed esponenti dell’AKP), d’autoritarismo e di clamorosi insuccessi in politica estera. Erdogan aveva reagito brutalmente, arrestando i giudici e i poliziotti che l’avevano incolpato, attaccando il potente Fethullah Gulen, capo di un’organizzazione che aveva sostenuto l’AKP, e vietando ai suoi oppositori l’uso di social network, come Twitter e Facebook, chiusi con la scusa che non pagavano le tasse in Turchia. Le elezioni amministrative di marzo, svoltesi in mezzo a accuse, a scandali, a manifestazioni di dissenso, erano state di fatto trasformate in un referendum su Erdogan e il suo governo.
Il successo ottenuto, lo ha galvanizzato. Ha minacciato di punire i suoi accusatori e oppositori. Ha mobilitato massicciamente, con il quasi completo monopolio esercitato sui media, la poderosa macchina elettorale dell’AKP. Tende chiaramente a ottenere oltre il 50% dei voti e la vittoria al primo turno. Ormai molti lo chiamano “Califfo”.
Seppure con il loro esito scontato, le elezioni presidenziali del 10 agosto avranno una portata storica per il futuro della Turchia. La forte personalità e il carattere autoritario di Erdogan stanno producendo un’erosione del processo democratico, che sembrava irreversibile nel 2005, quando Ankara decise di iniziare i negoziati per l’ammissione all’UE. Molti ritengono che tale decisione fosse solo funzionale all’obiettivo dell’AKP di diminuire la forza politica dei suoi più potenti oppositori: i militari e la magistratura, custodi dello Stato secolare kemalista.
Una volta ottenuto tale risultato l’interesse per l’UE sta scemando, Erdogan sta guardando altrove, in cerca di un’alternativa. Si sforza di migliorare i rapporti con la Russia, il che spiega la cautela con cui ha trattato il problema dei Tatari della Crimea e la decisione di affidare a Rosatom il programma elettronucleare turco. Ha aderito alla Shanghai Cooperation Organization, “corteggiando” la Cina con l’acquisto di missili antiaerei e con la partecipazione di una squadriglia di aerei cinesi all’annuale grande esercitazione aerea che si svolge in Turchia.
Il tentativo di aumentare l’influenza del soft power turco nel mondo arabo è fallito completamente. Solo in Tunisia il “modello turco” è ancora preso sul serio. Egitto e Arabia Saudita contrastano Ankara per il suo sostegno alla Fratellanza Musulmana. La Libia, per lo stesso motivo, ha espulso i diplomatici turchi, unitamente a quelli del Qatar. I virulenti attacchi verbali contro Israele per la questione di Gaza stanno determinando tensioni fra Amkara e Washington.
Malgrado i successi economici, la Turchia non è però in condizioni di svolgere una politica autonoma e di far meno dell’Occidente. Taluni pensano che Erdogan voglia rivitalizzare il “panturanesimo”, alleandosi con la Russia in Asia Centrale, dato l’interesse di Mosca alla presenza turca per contrastare nella regione la crescente influenza cinese. Ma si tratta di fantasie. Quello che conta è il Medio Oriente dove l’influenza turca è in caduta libera. Erdogan sa benissimo che un atterraggio potrebbe essere disastroso, qualora gli USA estendessero i loro accordi con l’Iran dal nucleare agli equilibri del Golfo e del Medio Oriente. La polarizzazione politica interna in Turchia aumenterà nel dopo elezioni.
Essa non consentirà a Erdogan di realizzare i suoi obiettivi di ponte fra Occidente ed Eurasia. Potrà forse allontanarsi dall’Europa, ma non dagli USA, nonostante le intemperanze verbali nei confronti di Obama per il mancato intervento in Siria, per l’appoggio all’unità dell’Iraq e contro l’indipendenza del Kurdistan e per l’appoggio dato a Israele.