A premessa, va detto che la strategia Usa sotto la presidenza Obama è abbastanza difficile da comprendere. Forse perché le linee guida, che pur sono state tracciate (allontanamento dal Medioriente, “pivot” asiatico, gestire gli eventi da lontano, ecc.) vengono continuamente travolte da eventi contingenti. E’ come se una forza perversa costringesse Obama a tornare spesso, e a malincuore, a ripercorrere in qualche modo i passi dei suoi predecessori.
Da qui la difficoltà a comprenderne la strategia, che appare comunque incerta ed evanescente. Un esempio significativo è stato l’ondivago comportamento in occasione della crisi siriana. Per la crisi irachena il Comandante in Capo (qualifica che pare gli piaccia molto) sembra essere più determinato, anche se, a guardar bene, si tratta di attacchi con qualche drone e pochi F-18 della portaerei. E’ probabile si stia muovendo anche per dei rimorsi di coscienza, avendo favorito a suo tempo al-Maliki (il cui comportamento settario è la causa prima degli attuali guai) nei confronti del laico Allawi, il vero vincitore delle elezioni del 2009.
Obama non ha posto un termine alla durata dei bombardamenti, ma ha anche chiarito che questo è solo un contributo all’esercito iracheno, che dovrà cavarsela da solo, e un tentativo di proteggere i rifugiati. Dimentica però di citare che al-Maliki non è solo, essendo circondato da una quantità di consiglieri iraniani, tra i quali pare ci sia il capo storico dei pasdaran.
E’ qui che politica e strategia trovano elementi di convergenza. Di fatto Barack Obama, bombardando i sunniti dell’Isis, non sta facendo solo un favore ad al-Maliki, ma soprattutto all’Iran degli Ayatollah e di Rouhani. La “secret diplomacy” è al lavoro da tempo. Non è da escludere, nell’area, una lenta evoluzione geostrategica, ed anche geopolitica.
L’ America proseguirà con la strategia Asia-Pacifico e, affrancata con lo “shale gas” da ogni dipendenza energetica, non si opporrà più agli interessi iraniani in Medioriente.