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È la Libia la prossima frontiera per l’Egitto. Parla Sergio Romano

L’autentico “vincitore” del sanguinoso conflitto che ha visto contrapposti Israele e Hamas sembra essere l’Egitto del generale Abdel Fattah al-Sisi.

Molti analisti si chiedono se il regime militare-laico del Cairo, artefice della proposta di tregua permanente accettata dal governo di Gerusalemme e della Striscia di Gaza, potrebbe rivelarsi determinante nel favorire un percorso negoziale proficuo tra Stato ebraico e Autorità nazionale palestinese. E se il prestigio riconquistato nella regione potrebbe renderlo il punto di riferimento, nel mondo arabo-musulmano, contro l’offensiva integralista dei fautori del califfato.

Formiche.net ha sentito l’opinione dello storico ed ex ambasciatore Sergio Romano, che pochi giorni fa sul Corriere della Sera ha caldeggiato una grande coalizione di Stati – capeggiata dall’Unione Europea – contro il fanatismo dell’ISIS.

L’Egitto può giocare un ruolo decisivo nella risoluzione del conflitto israeliano-palestinese?

Il governo del generale Abdel Fattah al-Sisi non è quello del suo predecessore Mohamed Morsi, il leader della Fratellanza musulmana che coltivava un rapporto organico con Hamas. Realtà che oggi non ha più le spalle coperte ed è più debole sul piano negoziale, poiché sa di avere al Cairo un regime non amico. Al contrario, dal punto di vista militare Hamas può sostenere con qualche legittimità di aver resistito alla forza armata di Israele. E in tali casi la potenza più “grande”, se non riesce a schiacciare il “piccolo”, ha perduto.

L’accordo per una tregua permanente è un indubbio salto di qualità verso la ripresa di un processo negoziale.

È necessario leggere e valutare i contenuti dell’intesa. Riguardo all’Egitto, ne comprenderemo il ruolo dal regime che verrà adottato per il passaggio del valico di Rafah, la frontiera internazionale che separa il paese nordafricano dalla Striscia di Gaza. Se Il Cairo non vuole guadagnare agli occhi nel mondo arabo una reputazione ostile alla causa palestinese, potrà essere generoso. E deciderà di allentare i controlli sui passaggi al confine.

Ritiene il governo egiziano un attore rilevante nell’Iraq e nella Siria flagellate dall’avanzata dei fanatici dell’ISIS?

Molto meno rispetto allo scenario israeliano-palestinese. Vi sono Paesi più coinvolti in quelle aree: Usa, Siria, Iran. Al contrario, per evidenti ragioni geografiche, Il Cairo è assai più interessato al turbolento conflitto in Libia. Non a caso avrebbe lanciato missili contro le milizie islamiste in collaborazione con gli Emirati Arabi Uniti.

L’Egitto rischia di restare stretto nella morsa dell’offensiva integralista ai propri confini orientali e occidentali?

Il pericolo vi è. Ma il generale al Sisi si è rivelato fin troppo tempestivo sbarazzandosi della Fratellanza musulmana con metodi molto bruschi, come emerso nei processi a raffica verso l’intera leadership del gruppo fondamentalista. Si è comportato come se volesse romperne la spina dorsale, non soltanto confinarla in un ruolo marginale. Voleva stroncarla. E tale iniziativa gli ha procurato molti nemici nell’universo integralista sunnita.

È a repentaglio l’esistenza del regime laico-militare al Cairo?

No, se al-Sisi continuerà a riscuotere il largo consenso della popolazione egiziana timorosa della piega fondamentalista impressa dalla presidenza Morsi. Ma dovrà essere aiutato. E credo che gli Stati Uniti, come fecero per l’Egitto di Sadat e Mubarak, lo appoggeranno con convinzione.

L’Egitto può guidare una alleanza e riscossa di paesi arabi e musulmani contro il fanatismo dell’ISIS, delle brigate integraliste libiche, di Boko Haram in Nigeria?

È l’ambizione dei suoi governanti. Per molto tempo l’Egitto è stato il paese leader della regione e del mondo arabo. Ma deve fronteggiare una realtà complessa al proprio interno, e ha alleati che per molti versi sono coinvolti nel groviglio di conflitti del Medio Oriente.

Pensa all’Arabia Saudita?

Esattamente. Riyad e Il Cairo sono uniti dall’ostilità verso la Fratellanza musulmana. Ma l’Arabia Saudita è impegnata in un conflitto interno al mondo sunnita, tra due versioni antitetiche di integralismo le cui differenze spesso sfuggono all’Occidente: la Fratellanza e la visione wahabita. E rappresenta una monarchia teocratica assolutistica. Mentre al-Sisi è, bene o male, alla guida di uno Stato laico che ragiona in termini politici.



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