Senza voler mancare di rispetto per la persona e il ruolo del Presidente della Repubblica, e confondersi con quanti ne contestano ossessivamente parole e iniziative, dipingendolo come un vecchio rincitrullito e un prevaricatore dell’ordine costituzionale, si presta a sorpresa e preoccupazione l’udienza da lui concessa al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan poche ore prima della riunione del Consiglio dei Ministri.
Sia pure inquadrato nella più vasta cornice di una “ricognizione” di problemi e scadenze europee, e relative ricadute sulla politica interna, e più in particolare sul modo in cui fronteggiare la grave crisi economica in corso, l’incontro di Giorgio Napolitano con Padoan alla immediatissima vigilia –si ripete- della riunione del Consiglio dei Ministri, è apparso strano alla luce di un altro incontro ravvicinato: quello dello stesso capo dello Stato con il presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Si è avuta la sensazione, magari sbagliata, per carità, che il presidente della Repubblica non fosse rimasto del tutto convinto del quadro fornitogli il giorno prima da Renzi ed avesse perciò avvertito la necessità di un aggiornamento, o di una verifica, sia pure –si ripete- nella cornice più ampia di una “ricognizione” europea. Dalla quale comunque il presidente del Consiglio non poteva essere considerato estraneo, vista la sua imminente partecipazione ad un importantissimo vertice dell’Unione.
Il governo Renzi ha già troppi problemi sul groppone, ereditati dal passato o creati di suo per un certo modo di muoversi e di improvvisare dell’ex sindaco di Firenze, troppo rapidamente assurto a tanta responsabilità, perché se ne aggiunga senza danni anche uno di tipo istituzionale come quello dei rapporti con il Quirinale.
Il capo dello Stato, dal canto suo, dovrebbe rendersi conto che il suo rapporto con il governo attuale è, o dovrebbe essere, assai diverso da quello con i due governi che lo avevano preceduto, nati più dall’iniziativa dello stesso Napolitano che da quelle dei partiti, letteralmente travolti –prima con la nomina di Mario Monti e poi con la nomina di Enrico Letta alla presidenza del Consiglio- da una loro evidente incapacità di affrontare emergenze di natura economica e istituzionale.
Il governo Renzi, pur assecondato alla fine dal Presidente della Repubblica, è nato dall’iniziativa politica dello stesso Renzi. Che prima ha conquistato la segreteria del maggiore partito rappresentato in Parlamento e poi ha deciso sin troppo bruscamente di assumere anche la guida dell’esecutivo, confermando la stessa maggioranza sui temi più stretti del governo ma allargandola al partito di Silvio Berlusconi sul versante delle riforme istituzionali. Eppure egli si era adoperato nei mesi precedenti nel proprio partito, senza esserne ancora il segretario, perché lo stesso Berlusconi decadesse da senatore per effetto della sua condanna definitiva per frode fiscale e della cosiddetta legge Severino, sulla cui costituzionalità altri avrebbero voluto, anche nel Pd, una preventiva verifica della Corte competente.
Ora che – bene o male – ha preso il largo, il governo Renzi ha il diritto, e non solo il dovere, di navigare di suo, senza reti di protezione e pilotaggi esterni. Esso ha il diritto al successo o all’insuccesso di suo, per poterne meglio rispondere agli elettori, quando verrà il momento.