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I sindacati impongono l’etica nel contratto nazionale

Parte dal basso la rivoluzione etica della moda. E, con una certa sorpresa, arriva da uno di quegli accordi imprese-sindacati (con tanto di sigle impronunciabili e infinite) che per anni hanno caratterizzato il prevalere dello status quo sulle necessità di innovazione. Questa volta, invece, l’etica sembra davvero aver sfondato le porte delle aziende e delle coscienze modaiole. Perché è proprio la parola “etica” (come concetto generale, ma anche nelle sue più compiute accezioni di responsabilità e sostenibilità di impresa) uno dei leitmotiv più significativi che arriva «dall’ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro 1 gennaio 2013 – 31 dicembre 2015 per gli oltre 75.000 dipendenti dei comparti dell’area tessile-moda, abbigliamento, calzature, occhiali e pulitinto lavanderie» siglato a Roma a fine luglio dai sindacati del settore Filctem-Cgil, Femca-Cisl, Uiltec-Uil e le associazioni degli artigiani Confartigianato, Cna, Casa e Claai.

Innanzi tutto, è interessante come, nel documento di accompagnamento all’ipotesi di accordo, le parti abbiano individuato, quale fattore da considerare nell’impostazione di una politica industriale, il cambiamento dei consumi verso un atteggiamento più etico. In particolare, spiega il documento, va considerato «il moltiplicarsi dei valori che incorpora il comportamento al consumo, e questo sia perché la globalizzazione ha aperto all’opportunità di accesso a consumatori eterogenei dal punto di vista socio-culturale, sia perché sono maturate nuove sensibilità sociali che si traducono in un approccio all’acquisto più consapevole e maturo sul piano dei contenuti culturali, estetici ed etici».

Inoltre, dopo la presa di coscienza del nuovo modello di consumo, l’aspetto concreto contenuto nell’ipotesi di accordo è ancora più significativo. Infatti, viene inserito un nuovo articolo che introduce la responsabilità sociale d’impresa direttamente nella bozza di contratto, e ne fa uno dei fattori strategici delegati al Comitato paritetico di sviluppo, cui prendono parte i lavoratori. «Le parti – si legge nell’ipotesi di contratto – riconoscono nell’attuale sistema di relazioni sindacali, lo strumento principale di promozione e gestione del processo di cambiamento culturale che pone al centro la responsabilità sociale d’impresa quale elemento che valorizza il connubio tra progresso economico e quello sociale. In questo senso, le parti ritengono che la stessa vada intesa come qualificante valore aggiunto per l’impresa e i suoi rapporti con i lavoratori, i clienti, i fornitori, il territorio e le istituzioni. In questo senso si sostiene la necessità di una metodologia partecipativa di rapporti basata sulla trasparenza e completezza degli elementi di informazione perseguendo comportamenti socialmente responsabili».

Evidentemente, a livello di produzioni territoriali si è operato il sorpasso rispetto alla crème del lusso nazionale, nel cui ambito ancora si registrano ritardi in termini di Csr rispetto ai competitor internazionali. Ma questo sorpasso dal basso ha un che di molto positivo. La forza del sistema moda nazionale, infatti, risiede nella sua filiera, ovvero nel fatto che il prodotto delle passerelle, o delle grandi boutique, è tale perché conta su una catena produttiva a monte che parte dalla materia prima, passa per i semilavorati e giunge poi sui tavoli dei designer. Che sia la filiera a muoversi sul piano della responsabilità sociale d’impresa, significa, tradotto, che è il territorio in cui la moda nasce che inizia a prendere coscienza del proprio valore in quanto cultura, tradizione, community.

Questa filiera ha preso atto del “cambiamento dei consumi”, cosa che ancora non si è letto nelle strategie di comunicazione delle griffe (invero, troppo concentrate a inseguire turisti siberiani o con gli occhi a a mandorla).

Avere una filiera etica, evidentemente, costringerà anche i signori del lusso, finalmente, a prendere atto che qualcosa è cambiato. E già da un po’.

 

 


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