Mentre l’Occidente prova a coalizzarsi con i Paesi arabi per contrastare la crescente minaccia dell’Isis, proprio ieri al-Qaeda ha lanciato un appello al gruppo di al-Baghdadi perché combattano sotto un’unica bandiera per sconfiggere definitivamente gli “infedeli”.
Un allarme che non lascia indifferente la comunità internazionale, intenta a delineare una strategia d’intervento che possa ridurre al minimo le perdite ed essere al tempo stesso efficace, tenendo conto delle conseguenze che un intervento diretto potrebbe comportare.
A crederlo è il generale Luciano Piacentini, già comandante delle forze speciali del “Col Moschin” e per molti anni in servizio negli organismi di informazione e sicurezza in diverse aree asiatiche, oggi consigliere scientifico della Fondazione Icsa, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché, per l’Occidente, intervenire contro lo Stato islamico sarebbe un errore.
Generale, il capo dello Stato maggiore delle Forze armate americane Martin Dempsey ha annunciato che, se la coalizione internazionale contro lo Stato Islamico dovesse fallire, gli Usa “non escludono il ricorso anche a truppe da combattimento a terra”. Che ne pensa?
Mi auguro di no. Qualsiasi tipo di intervento occidentale nell’area potrebbe essere visto come un’ingerenza e dare l’idea, sbagliata, che ci si trovi di fronte a un conflitto di religione e non ad un piano per eradicare un gruppo terroristico.
Per ovviare a questo problema il piano di Barack Obama prevede di coinvolgere nella coalizione Paesi musulmani, non solo arabi. Non è sufficiente?
Io credo che solo i Paesi musulmani possano risolvere questo conflitto, perché in fondo è dal loro interno che si è generato. Difficile comprendere ciò che accade con l’Isis se si slega dal conflitto nel mondo islamico tra sunniti e sciiti. In questo quadro anche i semplici interventi aerei rischiano di ottenere l’effetto contrario e far guadagnare consensi ai terroristi, perché i raid portano con sé una percentuale di errore che causerebbe la morte anche di civili.
Allora che tipo di strategia auspica?
Per contrastare il califfato io auspicherei una fortissima azione diplomatica con i Paesi arabi del Medio Oriente e non solo. Diventa essenziale non solo coinvolgere l’Arabia Saudita, principale Pese sunnita, ma anche l’Iran, Stato a maggioranza sciita. La partecipazione di quest’ultimo è poi legata in particolare all’allentamento della tensione da Occidente e Russia. Mentre Riyadh ha già dimostrato contro al-Qaeda di avere dei Servizi estremamente efficienti nel contrasto al terrorismo.
Non è un po’ troppo visti i venti di guerra che soffiano su Kiev?
La politica è fatta anche di priorità. Sicuramente il conflitto tra Ucraina e separatisti filo-russi non aiuta, ma l’Isis è un problema di portata globale che riguarda tutti. Sottovalutarlo o affrontarlo in ordine sparso sarebbe un rischio imperdonabile per Washington, Bruxelles e Mosca. Se l’Io Stato Islamico si rafforzasse ulteriormente, non ci sarebbe angolo del mondo dove non potremmo ritrovarla. L’appello di al-Qaeda all’Isis per unire le forze lo dimostra.
Malgrado i suoi auspici, un intervento diretto dell’Occidente sembra però inevitabile. Cosa fare in quel caso?
Le esperienze irachena e afghana dimostrano che, per i motivi che ho già elencato, l’invio di soli aerei rischia di essere controproducente. L’area può essere riconquistata solo attraverso una vasta operazione di consenso tra la popolazione civile, che può essere pregiudicata da perdite tra la popolazione locale. E poi bisogna essere consapevoli che un conflitto asimmetrico come questo, fatto di guerriglia, non può essere affrontato senza truppe sul campo, con tutto ciò che ne consegue. Anche per questo sarebbe opportuno che l’Occidente se ne tenesse alla larga.
In caso di conflitto diretto, ma anche nel solco di un’azione diplomatica, quale può essere il contributo anche militare dell’Italia?
Le armi date ai curdi rappresentano una soluzione adeguata, ma non corretta politicamente. La questione curda va ben al di là di questo conflitto e riguarda la creazione di uno Stato curdo al quale, prima poi, bisognerà pensare seriamente. Non è un caso che questo piano incontri le riserve di molti Paesi, come la Turchia. In caso di un intervento diretto dell’Occidente, non so quale potrebbe essere il nostro contributo di mezzi, ma il nostro valore aggiunto potrebbe essere certamente la nostra capacità di intelligence non solo in Libia e in Egitto, ma anche in territorio curdo iracheno. Noi siamo forse quelli meglio messi su quel versante. Non bisogna dimenticare che la nostra posizione è strategica sia per il Nord Africa sia per il Medio Oriente. Ogni nostra azione, dunque, non deve perdere d’occhio quella che è la salvaguardia dei nostri interessi vitali.