Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali
Ci risiamo. All’inizio di agosto il presidente statunitense Barack Obama ha tratto il dado e ha ordinato raid aerei per bombardare le agguerrite truppe dell’Isis, lo “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” proclamato dall’ex prigioniero di Abu Graib al-Bagdadi che era stato liberato in quanto “non pericoloso”.
Allora, i motivi annunciati erano tre: salvare i cittadini Usa nella città petrolifera di Erbil, sottrarre dalla ferocia jihadista le migliaia di “miscredenti” rifugiati sulle montagne e dare una mano all’esercito regolare iracheno, in rotta dopo una serie di fiaschi. Oggi, la situazione appare in tutta la sua gravità e Obama si accorge che non può più rimettere il dado nel sacchetto.
Ė obbligato, a malincuore, a intensificare la lotta. Il Congresso – da sempre sua bestia nera – lo sta osservando e lo stesso Occidente, in evidente carenza di leadership, appare frastornato ed incerto.
Nel frattempo si è aggiunta la questione Russia-Ucraina, mentre lo “strategico” pivot asiatico sembra non riuscire più a trovare una via. Obama, che deliberatamente ha condotto gli Stati Uniti a diventare “uno stato come gli altri”, non ha più forze sufficienti per tenere a bada due fronti. Anzi, tre, se al Medio Oriente e all’est europeo dovesse aggiungersi una più consistente presenza in Asia-Pacifico.
Serve il concorso di amici e alleati, i quali – a parte una decina, tra i quali David Cameron e Matteo Renzi – sinora non hanno reso esplicito un grande entusiasmo. Gli appelli nel contesto del vertice Nato in South Wales sono stati oggetto di garbata attenzione, ma non più di tanto. Nella dichiarazione finale, la questione Califfato trova spazio solo in cinque articoli su 113, dove viene mescolata al problema delle residue armi chimiche in Siria e, alla fine, solo Bashar Al-Assad viene (discutibilmente) incolpato della nascita e dello sviluppo dell’Isis.
Nessun mea culpa per il lungo sostegno all’ex premier sciita Nouri al-Maliki. Obama, sotto i riflettori, è costretto a dichiarazioni forti e ad abbandonare quel suo modo incerto e contraddittorio di fare politica estera che finora ha caratterizzato la sua azione. Per debilitare e infine “distruggere” l’Isis entro i prossimi tre anni – a suo carico ne restano due – cerca adesioni a una nuova “coalizione di volonterosi” per eliminare il sedicente Stato Islamico.
Mario Arpino è giornalista pubblicista, collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.