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Che cosa cambiare oltre l’articolo 18. Parla Nicola Rossi

Professore, è soddisfatto? Quindici anni dopo un altro premier di sinistra forse riesce a riformare l’articolo 18, mentre nel ’99 non ci riuscì Massimo D’Alema a Palazzo Chigi, dove lei era consigliere economico…

Aspetterei a dare la riforma per acquisita. La politica ha una innata tendenza a scegliere sempre la linea di minor resistenza e non vorrei che accadesse anche questa volta. Se e quando accadrà, il primo pensiero andrà ai costi sociali delle mancate riforme. Abbiamo costretto per 15 anni le generazioni più giovani a confrontarsi con un mercato del lavoro di cui non potevano avere che le briciole. Penso che sia una responsabilità piuttosto pesante.

Secondo lei le tensioni attuali fra vertice Pd e segreteria Cgil sono più o meno dirompenti rispetto a quelle che ci furono tra D’Alema e Cofferati?

La cultura della sinistra italiana è cambiata molto poco in questo ventennio (come del resto dimostra la piattaforma elettorale del 2013). E’ la tragica conseguenza del “resistere, resistere, resistere…”. In questo senso le difficoltà di oggi non sono inferiori a quelle di ieri (e mi auguro che nessuno voglia sottovalutare questo punto). Ma il passaggio del tempo può essere di grande aiuto e aiutare sopratutto i più giovani a vedere più laicamente una serie di questioni. Ciò detto, è bene ricordare che ci vuole una grande ambizione per provare a cambiare la cultura della propria gente. Più grande di quella che è necessaria per governare. Vedremo se questo sarà il caso.

Non ritiene che gli annunci renziani stridono con i tempi insiti nel disegno di legge, i decreti delegati e i passaggi parlamentari del Jobs Act? Probabilmente se tutto va bene la rottamazione dell’articolo 18 partirà dal 2016…

Di questi tempi gli annunci stridono sempre. Alle spalle (negli ultimi vent’anni ma anche negli ultimi sei mesi) ne abbiamo fin troppi di annunci a cui non hanno fatto poi seguito i fatti. Ciò detto, per comprimere i tempi c’è un modo: scrivere norme semplici. Capisco che per gli uffici legislativi dei ministeri e per le commissioni parlamentari questa può essere una missione impossibile ma forse è arrivato il momento che se ne facciano una ragione. O che qualcuno, in qualche modo, li convinca.

Stefano Fassina dice che il superamento dell’articolo 18 è stato chiesto di fatto dalla Bce. Insomma, siamo commissariati…

La riforma del mercato del lavoro è cosa troppo seria per porla in questi termini. A chiederla non è la Bce ma la performance straordinariamente deludente dell’economia e della società italiane nell’ultimo quarto di secolo. Ciò detto, forse è il caso di guardare in faccia la realtà: quote importanti di sovranità sono già state cedute nel corso degli ultimi anni. E sono state cedute a fronte di interventi europei (la Bce è parte integrante dell’Unione, o no?) i cui vantaggi (si pensi solo ai minori oneri per interessi) eccedono largamente i contributi italiani all’Unione. In questo senso chi sostiene che l’Italia ha dato all’Unione più di quanto ha ricevuto è molto male informato. E’ del tutto ragionevole che a fronte di ciò ci sia una limitazione di sovranità. Non si comporta così anche lo Stato italiano nei confronti delle Regioni?

Il banchiere Luigi Abete nella nuova trasmissione di Giovanni Floris su La 7 ha sottolineato 3 provvedimenti positivi del governo Renzi: bonus 80 euro, mobilità nella pubblica amministrazione e decreto Poletti che semplifica il ricorso delle aziende ai contratti a tempo determinato. Due su tre sembrano riforme più di centrodestra, o no?

Mah… Io credo che nei provvedimenti del governo in carica si veda con chiarezza l’impronta socialdemocratica. Lasciamo stare gli 80 euro (un provvedimento mal disegnato perché temporaneo e coperto solo in parte da tagli di spesa). Ma l’idea che la mobilità degli statali sia confinata a 50 km mi sembra espressione tipica di forze che continuano a vedere una differenza fra l’impiego pubblico e l’impiego privato. E per quel che riguarda il decreto Poletti, riparare ai clamorosi errori della riforma del lavoro targata Fornero non è di destra o di sinistra. E’ semplicemente ammettere che si era fatta una stupidaggine. No. Nell’operato di questo governo vedo, per il momento, molto poco che abbia a che fare con un moderno centrodestra europeo. E mi sembra giusto che sia così: non è un governo di centrodestra.

Prof, anche lei come i suoi colleghi liberisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina pensa che si possa azzardare a sforare il tetto del 3 per cento se si realizzano riforme e si tagliano le imposte ad aziende e lavoratori?

Una significativa riduzione della pressione fiscale coperta da tagli di spesa è urgente. Così come urgenti sono le riforme strutturali che aspettiamo da vent’anni. Una volta fatte queste ultime e semplicemente per tener conto della diversa tempistica di riduzioni di imposte e di tagli di spesa, si può anche ipotizzare uno sforamento temporaneo del 3% concordato con l’Unione. Ma non bisogna invertire i termini della questione.

Ma quali sono queste fantomatiche riforme strutturali che organismi internazionali e istituzioni europee continuano a chiederci? Le pensioni non sono state riformate dalla Fornero? Le liberalizzazioni non sono state fatte dal governo Monti? La spesa pubblica non è stata tagliata da Tremonti e pure dagli altri ministri dell’Economia, come dice anche nel suo libro il consigliere economico renziano Yoram Gutgeld? Basta solo rottamare l’articolo 18 dunque? Non mi parli di privatizzazioni, perché sono talmente facili che quella delle Poste è stata prorogata, idem per Enav e la vendita di quote di Eni ed Enel studiate dal Tesoro è stata stoppata da Renzi…

Con la sola eccezione delle pensioni, per il resto è stato fatto poco o niente. Si è impedito che la spesa crescesse oltre ogni ragionevolezza ma questo non significa che si è cominciato a domandarsi quale debba essere il ruolo dell’operatore pubblico nella nostra economia. Per le liberalizzazioni, basta pensare a quel che accade nei trasporti per capire che di strada ce n’è ancora tanta. Per la pubblica amministrazione, inclusa la giustizia, mi sembra, francamente, che si sia ancora agli inizi (tanto per cambiare). Insomma, l’agenda è in buona misura ancora lì, intonsa.

Prof, confessi, lei che è stato uno dei fautori dell’austerità: invece di essere la premessa di un ritorno alla crescita sta incancrenendo consumi, investimenti e quindi disoccupazione. L’Europa non ha sbagliato ricetta, ad esempio con il Fiscal Compact?

Al contrario. Osservo gli ultimi vent’anni e vedo che siamo passati da una crisi all’altra semplicemente perché non ci siamo mai fermati a curare il problema di fondo ma, di volta in volta, abbiamo scelto di intervenire sul problema più vicino a noi. Salvo poi porre le premesse per una nuova crisi. L’ambiente macroeconomico che si va formando comincia a somigliare tanto a quello precedente il 2007 con in più debiti pubblici molto superiori ad allora. In questo quadro la disciplina fiscale è una elementare misura di prudenza. La situazione globale è ancora bel lontana dall’essere stabilizzata. Detto questo, è appena il caso di ricordare a tutti noi che la crescita non si compra con le risorse pubbliche: se c’è un Paese che dovrebbe averlo imparato è l’Italia. E se c’è bisogno di un rapido corso di aggiornamento è sempre possibile fare istruttive visite guidate nel Mezzogiorno d’Italia.


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