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L’ascesa al potere di Ashraf Ghani Ahmadzai, il nuovo presidente dell’Afghanistan

L’ex ministro delle finanze Ashraf Ghani Ahmadzai è il nuovo Presidente dell’Afghanistan: la notizia è stata diffusa lo scorso 21 settembre dalla Commissione elettorale indipendente. Ghani, che ha sconfitto in ballottaggio Abdallah Abdallah, succede ad Hamid Karzai in quello che le agenzie definiscono “il primo trasferimento democratico” di poteri nella storia afghana. La proclamazione di Ghani, secondo il ministro degli Esteri Federica Mogherini, apre una “fase nuova” di una lunga vicenda.

Vediamo subito chi sono i protagonisti: si tratta di personaggi che presentano aspetti senz’altro interessanti per una prima analisi. Ashraf Ghani Ahmadzai, di etnia pashtun, è nato nel 1949. Economista, si è laureato all’Università americana di Beirut, acquisendo poi il master in economia alla Columbia University. E’ rimasto negli Stati Uniti per 24 anni, lavorando anche presso la Banca Mondiale. Rientrato nel 2001, dopo la caduta dei talebani è stato ministro delle Finanze e, successivamente, primo consigliere del presidente Karzai. Rinunciato al passaporto statunitense, aveva partecipato senza successo (3 per cento) alle presidenziali del 2009, in lizza anche allora con Abdallah Abdallah e lo stesso Karzai.

Di quest’ultimo, dopo 14 anni di palcoscenico mediatico, conosciamo quasi tutto (classe 1957, pashtun, laureato in scienze politiche, designato nel 2001 amministratore provvisorio dagli occidentali e da un’assemblea di notabili afgani, primo presidente eletto nel 2004). Molto meno sappiamo di Abdallah Abdallah, che tuttora personaggio chiave. Classe 1960, laureato in medicina, padre pashtun e madre tagika, quale ministro degli Esteri aveva familiarità con l’amministrazione Usa e con il Pentagono, ma alle elezioni presidenziali nel 2009 veniva marginalmente sconfitto. Dopo una denuncia di brogli, gli veniva riconosciuto il diritto al ballottaggio, dal quale tuttavia, sospettando nuovi inganni, si ritirava lasciando a Karzai, a questo punto candidato unico, la palma della vittoria.

Si arriva così al 5 aprile scorso, inizio di un processo elettorale funestato da sparatorie e inquinato, in più parti del Paese, da violenze e forzate astensioni dai seggi. Karzai, ufficialmente fuori dai giochi, aveva ritirato dalla lizza il potente e discusso fratello Qayum per sostituirlo con il ministro degli esteri in carica Zalmal Rassoul, un pashtun affiliato al clan di famiglia. I due personaggi dati per favoriti erano i perdenti del 2009, ovvero Ashraf Ghani e Abdallah Abdallah. Dopo interminabili scrutini, Ghani usciva di stretto margine vincitore. Mancando il quorum si va anche questa volta al ballottaggio (14 giugno), ma la storia si ripete: Abdallah perde, denuncia nuovi brogli e non accetta il verdetto della Commissione.

Nuovo braccio di ferro, con grande preoccupazione di chi si era impegnato a rimanere in Afghanistan anche dopo il 2014: infatti, Karzai – non volendo esporre se stesso ed il proprio clan ad accuse di “collaborazionismo” – si era prodotto in ogni pretesto pur di non firmare l’accordo per le basi future e le immunità. Toccherà a Ghani, se oserà farlo. La stessa Nato deve essersi trovata in serio imbarazzo al vertice di South Wales, dove si è tenuta un’apposita seduta sul suo futuro in Afghanistan , se nel lungo comunicato finale si è limitata ad accennare genericamente a questo “futuro” in solo quattro sfumati paragrafi (dal 41 al 44, su ben 113).

Colpo di scena la scorsa settimana, quando l’ineffabile Segretario di Stato John Kerry sembra aver colto il suo primo successo in politica estera, convincendo Ghani ed Abdallah ad una soluzione salomonica per la costituzione di un governo di solidarietà nazionale. Ashraf Ghani, come previsto, sostituirà Karzai come Presidente, con l’intesa, accettata dalle parti, che il nuovo governo sia guidato da un chief executive designato dallo sconfitto Abdallah Abdallah. Il quale, inutile dirlo, avrà facoltà di nominare se stesso all’alta carica. Così, a ciascuno il suo, e tutti contenti. O quasi, perché il seguito si deve ancora vedere.

Sospiro di sollievo anche per Federica Mogherini, che questa “fase nuova” la attendeva con ansia. A differenza di altri – tra cui i francesi, già ritirati, o gli inglesi, che nel 2013 avevano dimezzato le proprie forze e annunciato che dopo il 2014 non un solo soldato di Sua Maestà sarebbe rimasto sul suolo afgano – noi ci siamo impegnati a restare. Ci auguriamo di sapere presto come e con quali garanzie.

Mario Arpino è Giornalista pubblicista, collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI



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