Nella guerra al terrore dello Stato Islamico, un posto particolare è occupato dalla Turchia, preoccupata dell’arrivo del gruppo terrorista fino ai suoi confini. Ankara, pur membro della Nato, ha finora recitato un ruolo ambiguo nella vicenda, ponendosi al di fuori della coalizione anti-Isis lanciata da Barack Obama e alla quale prende parte un cospicuo numero di Paesi occidentali e arabi.
Una strategia dettata dai molteplici interessi turchi nella regione, spiega il generale Mario Arpino, membro del consiglio direttivo dello Iai, che in una conversazione con Formiche.net analizza passato e presente delle relazioni di Ankara con i jihadisti del Califfato.
Generale, i jihadisti sunniti dello Stato Islamico sono avanzati fino all’enclave curda di Kobane, città siriana a 500 metri dal confine turco. Anche Ankara deve temere l’Isis?
Non credo ci sia un pericolo reale di sconfinamento in territorio turco. Ankara però non sottovaluta quanto accade e ha già mosso truppe al confine. Finora la Turchia è stata piuttosto silente sull’IS, ma ora il suo atteggiamento potrebbe lievemente mutare, soprattutto a fronte della liberazione di una cinquantina di ostaggi turchi barattata con un numero simile di jihadisti. Ora il governo sente di avere le mani più libere.
Quanto incide la svolta islamista della Turchia nella posizione ambigua assunta da Ankara nei confronti dell’IS?
Sicuramente non frena un intervento armato della Turchia, ma ne condiziona in parte le scelte. Solo pochi giorni fa anche le ragazze che frequentano le scuole medie sono state autorizzate a portare velo. In tutti i Paesi in cui si assiste a una penetrazione dell’Islam nella società, quest’ultimo influisce in modo forte anche sulle scelte politiche. Da un lato è vero che il primo ministro Ahmet Davutoglu rassicura l’Occidente, dicendo che la Turchia non tenderà a una visione estremista dell’Islam, ma un’islamizzazione c’è. In questo tra lui e il presidente Recep Tayyip Erdoğan c’è una specie di gioco delle parti.
Quanto pesano invece, nell’ambiguità turca, gli interessi energetici del Paese nella regione?
Notevolmente. La Turchia deve riuscire a tenere il piede in due staffe. Può essere utile ricordare che fino a non molto tempo Ankara era alleata di Bashar al-Assad. Lo è stata finché l’ha aiutato a vendere il petrolio dei pozzi siriani, alcuni dei quali sono andati nelle mani dei jihadisti. La Turchia ha poi perso questo ruolo di mediatrice e questo l’ha avvicinata ai gruppi che lottavano contro il regime, come Jabhat al-Nusra, uno degli embrioni qaedisti dello Stato Islamico che ha infiltrato i ribelli nel territorio di Damasco.
La partecipazione dei peshmerga curdi alla coalizione anti-IS può costituire un ulteriore freno all’impegno turco?
Quello curdo è il primo fattore che gli analisti hanno ritenuto come frenante a un’apertura turca alla coalizione contro i terroristi a guida americana. La situazione potrebbe sbloccarsi se si riuscissero a isolare i curdi del Pkk, ma è un’operazione difficile, perché sono i più attivi militarmente e quindi i più utili dal punto di vista americano. Esclusi questi, la strada sarebbe in discesa, perché la Turchia, già prima di questa vicenda, aveva stretto – con l’avallo degli Usa – rapporti con il presidente del Kurdistan irakeno Mas’ud Barzani per lo sfruttamento dei pozzi di Erbil.
Molti osservatori sottolineano che in quanto membro della Nato, la Turchia dovrà necessariamente mutare questo atteggiamento che le causa forte imbarazzo.
Non sono d’accordo. Penso che abbia difficoltà di scelta e di movimento nello schierarsi apertamente contro l’IS per tutti questi elementi contrastanti che abbiamo già elencato. Non vedo invece un imbarazzo turco in relazione alla sua adesione alla Nato. Ankara è consapevole del proprio ruolo e sa bene che in questo momento e in quel teatro, l’Alleanza atlantica ha bisogno della Turchia molto più di quanto la Turchia abbia bisogno della Nato.