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Ottobre Rosso: il caos mondiale aumenta.

Si avvicina il centenario dell’Ottobre Rosso che caratterizzò il corso degli eventi nel ’17. Come allora stiamo per assistere ad una resa dei conti. Questa volta, però, sarà mondiale.

In Russia, in Europa e negli Usa si stanno scontrando potenti gruppi di potere interni a ciascun sistema, con pesanti conseguenze sulla stabilità geopolitica mondiale.

Putin deve rispondere ad un doppio attacco interno ed esterno. Da un lato quello interno sia degli oligarchi ultra nazionalisti che lo reputano troppo docile nei confronti del resto del mondo, sia degli oligarchi integrazionisti filo occidentali che lo accusano di isolare la Russia dal resto del mondo. A questi ultimi si aggiungono le opportunistiche provocazioni che certi ambienti atlantici compiono nel vicinato russo, nella speranza che l’orso reagisca eccessivamente. La strategia di Putin è stata finora equilibrata, rendendo scontenti un po’ tutti. Infatti, cresce sia la fronda interna di chi lo contesta sia la pressione sanzionatoria occidentale. In conseguenza, il Cremlino tenta di approfittare degli eventi da un lato per intervenire con maggiori controlli e restrizioni sulle libertà interne (si prevedono limitazioni all’uso di Internet) e dall’altro cercando di alzare il proprio profilo internazionale usando sia la crisi mediorientale sia compattando il fronte anti occidentale mondiale. La Russia teme che la propria sicurezza nazionale sia in gioco, e l’estensione dei fenomeni rivoluzionari colorati anche alla Cina rafforzano questo sentimento. Se l’Europa smettesse di eseguire (masochisticamente) gli interessi americani, la riapertura del dialogo cooperativo Ue-Russia sarebbe uno spiraglio strategico molto incoraggiante per la stabilità geopolitica mondiale.

In Europa la situazione di crisi economica e sociale sta sfaldando l’unitarietà (di facciata) degli unionisti. Non si tratta di eventi ascrivibili a prese di posizione politiche. La pretesa diversità tra le due grandi famiglie europee – Pse (S&D) e Ppe – non esiste, e per ammissione stessa dei due presidenti dei gruppi parlamentari – Pittella e Weber – essi lavorano consociativamente per difendere l’Unione dai crescenti attacchi, questi si politici, dei populisti, delle destre estreme, dei separatisti e degli euroscettici. La decisione della Francia di non rispettare i parametri fiscali e di bilancio nasce infatti più dalla necessità di sopravvivenza che da una scelta politica. Infatti, il recente avvicendamento al ministero dell’economia francese capitolava a favore dei rigoristi, come anche la nomina dell’azzoppato Moscovici a livello europeo. L’esultanza italiana come quella britannica è inconcludente perché la prima non ha i mezzi economici e reputazionali per sostenere una simile scelta (benché nel breve sarebbe una boccata di ossigeno), la seconda non è nemmeno membro dell’eurogruppo ma spera di sfruttare l’occasione per ridurre l’impatto delle perniciose critiche provenienti dal partito anti europeista (Ukip) e dagli indipendentisti. Ciò che si sta profilando è un nucleo duro all’interno dell’eurozona – Germania, Olanda, Finlandia – e un’armata brancaleone di vociferanti pifferai della crescita fittizia, cioè basata sull’indebolimento dei parametri rigoristi. Infatti, questi ultimi non hanno il coraggio di distinguere tra cause ed effetti della crisi. Se fossero seri, il tema non dovrebbe essere la modifica dei parametri ma la messa in discussione (politica) dell’intero impianto neoliberista che dalla seconda metà degli anni ’80 è stato imposto all’Europa (proprio con la grande complicità dei partiti socialisti e socialdemocratici). A questo si aggiunge la finta unitarietà nella politica estera e di sicurezza che, essendo stata dettata dall’America, non è percepita come propria da nessuno degli stati membri dell’Ue. Inoltre, la nomina del polacco Tusk alla presidenza dell’Ue è stato un grave errore che, infischiandosi della Storia, rischia di provocare violente tensioni centrifughe. In conclusione, ciò che per ora si capisce è che le forze unioniste si riducono e si compattano, pronte anche a creare un’Unione più piccola ma omogenea e funzionante. Gli altri predicano l’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa, cianciando di una fantomatica unione politica (mentre quella bancaria sembra essere svanita), ma in realtà sono tutti strutturalmente integrati nelle potenti maglie integrazioniste che, per via bancaria e finanziaria, li porteranno in un’unione atlantica con gli Usa. Il pasticcio del ’92 (Maastricht) è sopravissuto fino al pastrocchio del ’99 (Lisbona), ma adesso lo scontro tra unionisti e integrazionisti porterà al capolinea l’esperienza malriuscita dell’Ue. Ripeto che in questo scontro non c’è nulla di politico mentre contano, e molto, le dipendenze e la cialtroneria delle classi dirigenti. Tra il 2016 e il 2018 si terranno importanti momenti elettorali europei (le presidenziali in Francia, le legislative federali in Germania, il referendum nel Regno Unito) ma la tendenza sarà inevitabilmente segnata dalle elezioni presidenziali negli Usa nel novembre 2016.

Il pilastro di riferimento degli europei sono gli Usa che vivono uno dei momenti più difficili dai tempi dell’indipendenza. L’esperienza democratica guidata dal primo presidente afroamericano sta per concludersi lasciando il paese allo stremo e nel caos finanziario e istituzionale. Tra debito pubblico (in prevalenza detenuto all’estero) a livelli di stellare insostenibilità, un sistema fiscale molto vecchio e confuso, una crescente disorganicità del potere federale che si evidenzia in scontri tra vari apparati e i vertici politici, si avvicinano le elezioni di mid term (novembre 2014) che vedranno la perdita del controllo democratico probabilmente in entrambe le camere parlamentari. Lo scontro tra potentati trasversali si acuisce, da un lato i neocons fautori dell’intervenzionismo e dall’altro i neonazionalisti fautori di un neo-isolazionismo, sta esautorando ciò che resta della presidenza Obama. Quest’ultimo ha dovuto capitolare ed accettare l’intervento militare in Iraq e Siria, ma tenta ancora di resistere all’invio ufficiale di forze armate americane sul terreno. Per un presidente Nobel per la pace che ha iniziato la sua presidenza promettendo la fine delle guerre di Bush e il ritiro dei soldati americani, si tratta di una debacle pesantissima. Le gravi tensioni e i violenti ricatti all’interno della comunità di intelligence e di sicurezza americana sono una spia allarmante che il sistema rischia l’implosione, partendo dagli apparati più centrali dello stato. L’abile retorica e la moral suasion di Obama non riescono più a mascherare la realtà: un paese che scivola pericolosamente verso l’insolvenza e che reagisce con la violenza del dominio nel tentativo (fallace) di salvare la propria egemonia. Sembra proprio che anche negli Usa si stia arrivando alla resa dei conti interni ma anche mondiali. Infatti, mentre si azzannano tra loro i poteri americani, il resto del mondo – attori classici come gli stati, ma anche nuovi attori come le reti della finanza, della criminalità e dell’insorgenza – rifiutano apertamente il modello egemonico americano. Anche in questo caso vale, in forma ribaltata, la logica di provocazione alla Russia, nella speranza di una fatale reazione eccessiva.


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