Richieste, pareri e pressioni della Procura di Palermo sulla locale Corte d’Assise, per collegare in videoconferenza il 28 ottobre i boss imputati Salvatore Riina e Leoluca Bagarella alla deposizione quirinalizia del presidente della Repubblica, confermano il carattere ormai “teatrale” del processo in corso sulla presunta trattativa fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra nella lontana stagione delle stragi mafiose. Un carattere efficacemente denunciato il 26 settembre su Formiche.net dal giurista Giovanni Pellegrino, già parlamentare di sinistra e presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi. Era stata appena annunciata la chiamata a deporre disposta a carico di Giorgio Napolitano. Che sarà interrogato sul Colle in una udienza non pubblica, secondo le prerogative riconosciutegli dal codice di procedura penale.
Un’associazione clamorosa dei boss mafiosi, per le strumentalizzazioni alle quali si potrebbe prestare, renderebbe ancora più dubbia la “utilità”, contestata anch’essa da Pellegrino, della pur “legittima” testimonianza del capo dello Stato. Che aveva scritto in ottobre alla Corte per avvertirla di non avere nulla da chiarire e tanto meno da aggiungere ad una lettera per la quale i giudici erano stati sollecitati dalla pubblica accusa a convocarlo come teste.
Si tratta, come è ormai arcinoto, della lettera di dimissioni, prontamente respinte, in cui nel mese di giugno del 2012 l’allora consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, morto un mese dopo di crepacuore, espresse tutto il proprio disappunto e le proprie preoccupazioni per le polemiche che lo avevano colpito, e avevano cominciato a coinvolgere pure il capo dello Stato, avendo dato ascolto alle proteste telefoniche di Nicola Mancino, ex ministro democristiano dell’Interno, ma anche ex presidente del Senato ed ex vice presidente dello stesso Napolitano al Consiglio Superiore della Magistratura, per il proprio coinvolgimento a Palermo nelle indagini, secondo lui non sufficientemente coordinate fra diverse Procure, sulle presunte trattative durante le stragi mafiose di una ventina d’anni prima.
Fu in quella lettera, resa pubblica con encomiabile e significativa trasparenza dal presidente della Repubblica, che D’Ambrosio, oltre a mostrare di condividere le critiche di Mancino ai metodi d’indagine praticati a Palermo, espresse il “timore” di poter essere stato “considerato” negli anni delle stragi, quando collaborava con il Ministero della Giustizia esprimendo pareri ed altro, “un ingenuo scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
“Lei sa”, scrisse a Napolitano il suo consigliere giuridico. E proprio su quell’inciso i pubblici ministeri si sono ripetutamente richiamati per reclamare chiarimenti, anche dopo che Napolitano ha fatto sapere di non averne da fornire, anche se volesse rinunciare a quel diritto di riservatezza maggiore di qualsiasi altro cittadino riconosciutogli dalla Corte Costituzionale nella sentenza di accoglimento del ricorso del Quirinale contro la pretesa della Procura di Palermo di conservare le registrazioni delle intercettazioni giudiziarie nelle quali era “casualmente” incorso pure il presidente della Repubblica al telefono con Mancino. Che come imputato di falsa testimonianza –non di altro per non trasferire il processo al tribunale dei ministri, con un preventivo passaggio parlamentare- reclama anche lui il diritto di partecipare all’udienza giudiziaria nel Quirinale a porte chiuse.
Resta ora da vedere se la Corte d’Assise, ammettendo il videocollegamento con Riina e Bagarella, asseconderà anche questo supplemento di “teatro” perseguito dalla Procura della Repubblica di Palermo con una ostinazione della quale avrebbe tutto il diritto di essere fiero il non più procuratore aggiunto Antonio Ingroia. Che dopo una breve trasferta in Guatemala è tornato a fare un altro lavoro in Sicilia passando per un inutile tentativo di farsi eleggere l’anno scorso al Parlamento e una grottesca, per quanto legittima, candidatura addirittura a presidente del Consiglio.
Di teatro in teatro, lo spettacolo è infinito. E a buon mercato per un certo pubblico, ma non per lo Stato.
Francesco Damato