Kobane, la città curdo-siriana vicina al confine con la Turchia, è allo stremo. Già da ieri nel centro abitato sventolavano le bandiere nere dello Stato islamico che occupa sempre più quartieri, al punto da aver spinto Recep Tayyip Erdogan ad invocare un intervento di truppe di terra.
Ma quanto c’è di vero nelle parole del presidente turco? Non molto, secondo il generale Mario Arpino, membro del consiglio direttivo dello Iai, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché, nella città curda, gli interessi di Ankara e quelli dell’Isis finiscono invece per convergere.
Generale, l’Isis è arrivato a Kobane, alle porte della Turchia. Ed Erdogan ha detto che non è più tempo di raid, ma bisogna inviare truppe di terra.
Le dichiarazioni del presidente turco confermano che la posizione di Ankara in merito al conflitto rimane ambigua. Da un lato ha auspicato un intervento, ma dall’altro non ha invocato l’articolo 5 della Nato per il sostegno alleato, sebbene il segretario generale Jens Stoltenberg abbia detto che l’Alleanza è pronta a difendere il Paese. Non solo. Il governo turco chiede garanzie che l’azione internazionale porterà alla rimozione del regime di Bashar al-Assad, suo grande nemico, e all’isolamento del Pkk. Condizioni che sa bene non poter essere soddisfatte in questo momento. Ciò perché in fondo la Turchia non teme di essere invasa, ma cerca solo di alzare la posta di un suo possibile coinvolgimento attivo nella coalizione.
Quante possibilità ci sono che l’Isis oltrepassi il confine siriano?
Nessuna per ora. Anche tralasciando i numerosi intrecci energetici, al momento Ankara considera i curdi più ostili di quanto non lo sia Stato Islamico, tanto da averli fermati alla frontiera e aver fatto passare i siriani. Occupando Kobane, l’Isis potrebbe addirittura averle fatto un favore. Inoltre il gruppo terrorista sa bene che se dovesse stuzzicarla, la Turchia cambierebbe atteggiamento, rendendole la vita molto più difficile. Al momento va in scena una sorta di commedia. In verità ci troviamo e ci troveremo per un po’ di fronte a una fase di stallo che conviene a tutti e due.
Crede ad ogni modo, se la situazione dovesse ulteriormente precipitare, la Nato potrebbe decidere di muoversi autonomamente per evitare che lo Stato Islamico faccia un nuovo passo verso l’Europa?
Lo escludo. L’Occidente non vuole inviare soldati, né i Paesi arabi hanno intenzione di farlo. Si parla degli aerei del Qatar che sorvolano la Siria. Tutto vero, ma finora si sono limitati ad effettuare voli ricognitivi, con un impatto davvero minimo sul conflitto. Le truppe di terra ci vorrebbero, ma non c’è nessuno che vuole mettere in campo i suoi uomini. Né si può continuare a intervenire con i raid su città come Kobane. Una volta che si è preso possesso di un centro abitato, i caccia possono fare poco. Attaccare con gli aerei o con altri mezzi, per quanto precisi, creerebbe danni collaterali di difficile comprensione per l’opinione pubblica e che i jihadisti sanno ben sfruttare mediaticamente a loro vantaggio.
Per debellare l’Isis non c’è alternativa all’invio di truppe?
Non sul lungo periodo. L’opinione pubblica occidentale è disorientata. Da un lato vorrebbe che l’Isis non si avvicinasse maggiormente all’Europa perché la considera una minaccia per la sua sicurezza, dall’altro non vuole pagare il costo umano ed economico che questo tipo di impegno comporterebbe. Purtroppo però, quando i conflitti assumono le caratteristiche della guerriglia, come in questo caso, strategicamente e militarmente c’è poca scelta. L’unica possibilità è quella, già richiamata da Edward Luttwak in un’intervista, di una secret diplomacy che dia il disco verde all’Iran, già presente sul territorio, e soprattutto agli uomini di Assad.