Purtroppo ci sono disastri destinati a rimanere senza colpevoli. L’alluvione di Genova, che ancora una volta ha ucciso, appartiene a questa categoria. Ciò non significa che non vi siano responsabilità profonde e diffuse.
LA CAUSA PRINCIPALE
Naturalmente ci saranno inchieste e accuse, ma sarebbe ingiusto imputare il disastro, del tutto o prevalentemente, al sindaco o al presidente della regione o al prefetto o a chi volete voi. La principale causa della tragedia – che avrebbe potuto essere anche molto più grave se la furia della pioggia si fosse scatenata di giorno anziché di notte – è l’acqua caduta dal cielo, con intensità e per una durata del tutto eccezionali. Stante la situazione genovese, era fisiologico che le onde di piena uscissero dal letto dei torrenti e combinassero dei guai.
IL DISASTRATO RISCHIO IDROGEOLOGICO
Quello che non era e non è fisiologico è, piuttosto, qualcos’altro, che non è riconducibile a specifici individui, ma che dipende da una responsabilità condivisa dalle classi dirigenti regionali e cittadine degli ultimi decenni. Quello che non era e non è fisiologico, cioè, è il sistematico fallimento dell’intera catena della prevenzione e gestione del rischio idrogeologico.
L’ANALISI DEL SECOLO XIX
Partendo dal fondo e andando a ritroso, gli allagamenti sono avvenuti nella totale assenza di misure di crisis management; è mancata la capacità di anticipare quello che sarebbe stato un evento estremo e di lanciare gli opportuni allerta; la manutenzione degli alvei dei torrenti e dei versanti sulle alture è stata assente; e soprattutto, come ha scritto il direttore del Secolo XIX, Alessandro Cassinis, sull’edizione di ieri del quotidiano ligure, resta l’amaro in bocca per il fatto che “tre anni dopo [l’alluvione del 2011] non è cambiato nulla”.
IL CASO BISAGNO
Tutto ciò, ripeto, non è “colpa” di questo o di quello, se non nella misura in cui questo e quello sono stati complici dello dello status quo e non sono riusciti a cambiare le cose, raddrizzando tutto quello che è andato storto. Anche a prescindere dall’efficacia dell’allarme e dunque della risposta, va da sé che l’impressionante sequenza di alluvioni che hanno investito Genova negli ultimi decenni denuncia la totale assenza della prevenzione del rischio idrogeologico. Che la copertura del Bisagno – e degli altri torrenti che attraversano la città – sia una bomba pronta a esplodere ogni tre per due lo sanno anche i sassi, e lo sanno virtualmente da sempre. Perché, allora, non si fa niente? Le risposte standard sono due, entrambe vere ed entrambe, al tempo stesso, false: troppa burocrazia e pochi soldi.
LA QUESTIONE BUROCRATICA
La burocrazia è, evidentemente, una piaga. Gli stessi lavori che finalmente avrebbero dovuto mettersi in moto dopo l’evento del 2011 sono tuttora fermi al Tar. Questo non è un problema di Genova, ma un problema italiano: il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, lo ha detto senza mezzi termini. L’idea che i soldi siano stanziati, i progetti approvati, e che la città sia ostaggio della magistratura fa ribollire il sangue, all’indomani della tragedia. Ma – e questo è il dramma – appariva perfettamente tollerabile fino al giorno prima. Anzi, più che tollerabile: voluta e inseguita, se è vero come è vero che ogni volta che si muove una ruspa nasce un comitato di cittadini, naturalmente preoccupati per l’ambiente, pronti a sdraiarsi sulla strada e avviare cause infinite.
LA PARTICOLARITA’ DI GENOVA
Genova è costruita come è costruita, per una molteplicità di ragioni e in virtù della sua storia. Quindi, o si radono al suolo interi quartieri (per inciso: il condominio maledetto di via Fereggiano 2, dove persero la vita 5 persone nel 2011, è ancora, ovviamente, al suo posto, e anche giovedì notte, ovviamente, è andato sott’acqua). Oppure bisogna convivere con un rischio che può solo essere gestito. Per esempio realizzando il canale scolmatore di cui si parla da decenni.
IL NODO DEI SOLDI E DELLE PARTECIPATE
Il che conduce al tema dei soldi. Certo, mancano i soldi: o, almeno, mancano se si pensa di cavarli dal nulla dall’oggi al domani (e speriamo che il governo riesca a trovare qualche finanziamento, perché altrimenti ogni anno continuerà a essere un tiro di dadi). Ma i soldi non mancano oggi: mancano sempre. La scomoda verità è che i soldi non è che non ci fossero: è che sono stati spesi altrove, dando (legittimamente) la priorità ad altre spese. Quali? Basta guardare il bilancio del comune di Genova (o, se è per questo, della regione Liguria) per avere la risposta. Genova e la Liguria non hanno capacità di investire nel territorio perché da anni hanno abdicato a questo ruolo, preferendo utilizzare ogni euro disponibile per mantenere giganteschi centri d’impiego scarsamente produttivi. Per fare un solo esempio: le società partecipate dal comune di Genova, Amt e Aster in primis, sono carrozzoni succhiasoldi che potrebbero svolgere (meglio) le stesse funzioni a un costo significativamente inferiore. Parte della differenza avrebbe potuto essere usata per finanziare le opere necessarie.
DOSSIER ARPAL
Il caso dell’Arpal è eloquente. L’agenzia è sotto accusa per non aver saputo prevedere la tempesta o, meglio, per l’incredibile tiramolla “lancio-o-non-lancio-l’allarme” che si è trascinato per tutta la giornata di giovedì, concludendosi con un messaggio tranquillizzante a poche ore dall’Apocalisse. Onestamente non so se si tratti di un’accusa sostenibile: non ho le competenze per valutare i modelli utilizzati. Quello che però è evidente è che Arpal è una struttura che come minimo si contraddistingue per una pessima organizzazione del lavoro. Qualche amico mi dice che sia sotto organico: forse è vero, forse servirebbe “sangue fresco”. Ma certamente non manca sangue ben retribuito: Arpal, che ha ricavi per circa 26 milioni di euro e perdite per 1,2, ha spese per il personale pari a circa 16 milioni, di cui grosso modo un terzo serve a remunerare 49 dirigenti (ringrazio Alessandro Pitto per la segnalazione). Tali dirigenti avranno pure eccellenti competenze professionali, ma faticano a far filare la macchina: o almeno così pare a guardare il tasso di assenteismo del 21%, con punte in alcuni uffici del 50%.
UN PO’ DI CONTI
Uno dice: sì, ma che ci fai coi 5, 10 o 20 milioni di euro annui che potresti risparmiare? Sono poca roba, rispetto all’enormità degli investimenti richiesti. Vero. Ma a) una seria spending review su tutte le partecipate e gli stessi enti pubblici potrebbe far emergere molto più di questo, e soprattutto b) 5, 10 o 20 milioni sono probabilmente pochi, ma l’integrale di 5, 10 o 20 milioni all’anno per 5, 10 o 20 anni fornisce esattamente quelle risorse che sono mancate e che oggi vengono (inevitabilmente e persino giustamente) chieste a Roma.
CONCLUSIONE
Allora la triste verità di Genova è che qui si è preferito pagare stipendi a fare investimenti, nascondendosi ogni volta dietro un dito di per sé perfettamente ragionevole, all’apparenza. Ma il risultato di questa prolungata politica di elargizione è che oggi la città (e, invero, la regione: l’entroterra è una teoria ininterrotta di frane) è del tutto impreparata ad affrontare l’emergenza, e l’emergenza stessa coincide con la normalità.