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Perché Usa e Iran non collaborano troppo contro l’Isis

Le crisi siriana e irachena, provocate dagli impressionanti successi militari dell’ISIS, hanno provocato un dibattito sull’opportunità, la portata e i limiti di una collaborazione diretta fra gli USA e l’Iran. E’ possibile? Qual è l’apporto che possono dare al contenimento, degrado e distruzione dell’ISIS? Quali ne potrebbero essere le conseguenze sulla coalizione e sugli assetti geopolitici del Medio Oriente? Gli obiettivi che perseguono i due Stati sono in parte convergenti. Entrambi, seppur per motivi diversi, hanno interesse alla distruzione del Califfato. Entrambi, seppur per motivi diversi vogliono il mantenimento delle attuali frontiere.

I fautori di una cooperazione militare – che comporta necessariamente un accordo geopolitico – tra i quali vi è il Segretario di Stato USA John Kerry, ricordano i precedenti episodi di collaborazione fra gli USA e l’Iran: l’offensiva in Afghanistan nell’autunno 2001 fu molto facilitata dal sostegno dell’Iran. Teheran svolse in Iraq un’azione convergente con le pressioni USA per allontanare dal potere il primo ministro Nouri al-Maliki.

Esistono però difficoltà molto rilevanti, che limitano le possibilità di cooperazione e che forse la rendono impraticabile. Esse sono sia oggettive che soggettive. Le prime, per gli USA, consistono soprattutto nel fatto che una collaborazione esplicita con Teheran alienerebbe dagli USA i paesi sunniti, ritenuti indispensabili per la distruzione delle radici ideologiche dell’ISIS, e creerebbe problemi con la Turchia, aspirante anch’essa all’egemonia regionale. Dal canto suo, in Iran il Grande Ayatollah Alì Khamenei e l’influente Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica sono contrari ad ogni intesa. Ritengono che gli USA siano una potenza in declino e che, prima o poi, si dovranno ritirare dal Golfo. La possibilità di Teheran di realizzare la sua influenza sarebbero allora migliori di quelle che potrebbe generare un accordo con gli USA.

Dal punto della politica interna, i ricordi del passato pesano ancora. In entrambi i paesi sistono forti opposizioni a qualsiasi collaborazione. Lo dimostra anche il rallentamento dei negoziati sul nucleare. Ben difficilmente potranno concludersi alla data stabilita del 24 novembre. Gli USA non hanno ancora perdonato a Teheran l’occupazione della loro Ambasciata a Teheran e l’umiliazione della cattura dei suoi diplomatici e del fallimento del raid che si prefiggeva di liberarli. Esiste poi una lobby saudita, che non vuole abbandonare l’alleanza con le monarchie del Golfo. Lo stesso orientamento ha la lobby ebraica. Quest’ultima, come il governo israeliano, considera Teheran un pericolo maggiore dell’ISIS. Lo dimostra la cauta reazione di Gerusalemme all’avanzata dei jihadisti dell’l’ISIS e dei qaedisti del Fronte al-Nusra, nelle colline del Golan, vicino ai propri confini. Israele ritiene che siano troppo deboli per attaccarlo, mentre considera un vantaggio i loro scontri con l’Hezbollah libanese.

In Iran, i Pasdaran temono di perdere parte del loro potere politico ed economico. Cercano di indebolire il presidente Hassan Rouhani, che accusano di essere troppo accomodante con Washington sul nucleare. Il contrasto istituzionale è reso più difficile da risolvere per le cattive condizioni di salute e per l’incerta successione della “Guida Suprema”, Khamenei. Può darsi anche che l’opposizione iraniana a un accordo – anche se limitato solo al livello tattico-operativo, e non esteso a quello politico-strategico – derivi dal timore che Washington, i membri arabi della coalizione e la Turchia lo subordino all’allontanamento di Basher al-Assad. Esso provocherebbe in Siria l’aumento dell’influenza della Turchia e, in Libano, l’indebolimento degli hezbollah. Può derivare anche dal fatto che gli iraniani pensino che il tempo lavori a loro favore. Secondo loro, Washington – disperata per la situazione di stallo dello scontro con l’ISIS, per la mancanza di cooperazione turca, per il patetico concorso dell’Europa e per l’ambiguità degli Stati arabi della coalizione – dovrà chiedere l’aiuto dell’Iran sia sul campo sia convincendo Assad a cedere il potere a una personalità alawita espressa dall’esercito. In tal modo, Teheran potrebbe tutelare i propri interessi in Siria. Il nuovo regime potrebbe avvalersi dell’esercito, unica forza in grado d’evitare che il paese piombi nel caos di una “guerra per bande”, come in Libia.

Estendendo i bombardamenti dall’Iraq alla Siria, gli USA si sono impelagati nuovamente nel ginepraio mediorientale, non solo nei suoi contrasti etnici, tribali e confessionali, ma anche nelle guerre per procura che sono in corso nei due paesi. La principale è quella fra l’Arabia Saudita e l’Iran. Riyad ha visto nella rivolta siriana un’opportunità di spezzare la “mezzaluna sciita”. Un terzo attore – che non sembra ancora aver deciso che fare – è la Turchia. Ankara non ha abbandonato il “sogno” neo-ottomano di estendere l’influenza a Sud, distrutta dalla prima guerra mondiale e dagli accordi Sykes-Picot. Contesta le attuali frontiere “coloniali”. Ciò la porterà in rotta di collisione non solo con i curdi, ma anche con l’Iran, con gli Stati arabi sunniti e anche con gli USA. La storia si ripete. La Mesopotamia è stata in passato un teatro di competizione fra i due grandi imperi mediorientali: quello ottomano e quello persiano.

La situazione è fluida. E’ impossibile prevederne l’evoluzione. Gli USA si trovano di fronte a un dilemma: non tanto quello di scegliere fra i “buoni” e i “cattivi”, dato che in Medio oriente i primi sono assenti, ma fra Arabia Saudita, Iran e Turchia. La scelta della prima potrebbe facilitare una soluzione più a lungo termine del problema dell’ISIS e del radicalismo sunnita. La scelta dell’Iran potrebbe conseguire obiettivi a più corto termine, data l’influenza di Teheran su tutti gli sciiti iracheni e siriani, inclusi gli Hezbollah libanesi, e i sostegni finanziari e militari che concede loro. L’appoggio alle ambizioni turche li metterebbe in contrasto son sauditi e iraniani.

Ammesso che l’Iran decidesse di collaborare con gli USA non potrebbe dare un apporto decisivo all’azione della coalizione anti-ISIS. Teoricamente, potrebbe impiegare, oltre alle unità speciali al-Quds, specializzate per le azioni al di fuori del territorio iraniano e già operanti in Iraq e in Siria, anche le undici brigate leggere delle Guardie della Rivoluzione. Gli Stati del Golfo e la Turchia potrebbero far ben poco per opporsi alla decisione USA di estendere l’attuale negoziato sul nucleare alla distensione fra Washington e Teheran e a una collaborazione militare. Ammesso, ma non concesso, che i due trovino un accordo, verrebbe modificata l’intera geopolitica del Medio Oriente. Non solo i paesi sunniti, ma anche Israele cercheranno di sabotarlo. In conclusione, penso che sarebbe meglio lasciar perdere. Se, con l’attuale coalizione, il conflitto potrebbe durare trent’anni, un mutamento di campo degli USA a favore dell’Iran lo potrebbe prolungare a cinquanta.


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