Come Clausewitz ha dimostrato, nessun piano strategico sopravvive al primo colpo di cannone. Ogni strategia va adattata in continuazione alle circostanze. Collega gli obiettivi politici e gli esiti dei combattimenti. E’ ponte fra la politica e la tattica. I contendenti cercano sempre di sorprendersi e di trarsi in inganno sulle rispettive intenzioni e capacità. La prova di forza è al servizio dello scontro fra volontà politiche, che perseguono obiettivi contrapposti. Il centro di qualsiasi analisi strategica è la comprensione degli obiettivi avversari.
Che cosa vuole l’ISIS? Perché ha provocato con le decapitazioni di ostaggi l’intervento americano? Ha commesso un errore o l’ha fatto appositamente? A parer mio, è corretta la seconda interpretazione. La capacità comunicativa dell’ISIS è tanto sofisticata, che non possono essergli sfuggite le conseguenze delle decapitazioni e delle altre brutali violenze. Non possono essere spiegate solo con l’intento di reclutare gli psicopatici e gli sbandati del mondo islamico. Allora, l’obiettivo dell’ISIS non sarebbe l’Occidente e forse neppure gli Stati della penisola arabica, né gli sciiti. Non costituirebbe il real and present danger di cui ha parlato Obama. Il Califfato si prefiggerebbe di monopolizzare in Siria e in Iraq tutti i movimenti radicali islamici. Per questo motivo, al-Qaeda è tanto preoccupato dall’aumento di prestigio ottenuto dall’ISIS, facendosi bombardare.
Obama vuole conseguire obiettivi ambiziosi: “degradare le capacità dell’ISIS per poi distruggerlo”. Li ha definiti sotto la pressione dell’opinione pubblica. Il 90% degli americani considerano l’ISIS una minaccia. Così facendo gli USA eliminerebbero il Califfato, che ha introdotto un nuovo fattore di confusione in un già caotico Medio Oriente. Lo strano personaggio, Abu Badr al-Baghdadi, autoproclamatosi califfo, non dichiara il suo vero obiettivo. Dice di voler cancellare i confini fra gli Stati islamici, a partire da quelli mediorientali, imposti dalle potenze coloniali e imporre la più rigorista interpretazione della sharia. Mi sembra una fantasia, sebbene Iraq e Siria non siano stati nella storia veri Stati. Il concetto di cittadinanza e di diritti individuali vi è sconosciuto. Non hanno saputo costruire nazioni. Dal loro indebolimento con è nato l’Islam politico. Sono risorte le etnie, i clan e le tribù.
Certamente, al-Baghdadi possiedi brillanti doti politiche, organizzative, strategiche e comunicative. Esse gli permettono di mantenere unito l’ISIS, complessa formazione che condivide le caratteristiche di gruppo terroristico, di forza insurrezionale e di esercito regolare. Dispone di ottimi combattenti e di capaci comandanti. Ha un’organizzazione di comando e di controllo politico-militare che funziona molto bene. Gli consente di concentrare le forze su una delle tre direzioni in cui sviluppano gli attacchi dell’ISIS: la vallata dell’Eufrate, quella del Tigri e la Siria settentrionale. Gli permette poi di coordinare i combattimenti di tipo convenzionale con una serie sempre più intensa di attentati, soprattutto a Baghdad. Essi stanno disperdendo le forze dell’esercito iracheno e delle milizie sciite, suscitano terrore e, soprattutto, provocano rappresaglie sulle popolazioni sunnite. In tal modo, al-Baghdadi rende impossibile la collaborazione dei sunniti con la coalizione anti-ISIS. Essa rappresenta la sua maggiore vulnerabilità. Costituiva giustamente il pilastro portante della strategia di Obama, di replicare il successo che aveva avuto il “Risveglio Sunnita”, che, con il surge del generale Petraeus, aveva sconfitto l’organizzazione qaedista allora operante in Iraq. Senza il concorso dei sunniti, l’ISIS non può essere sconfitto politicamente e verosimilmente neppure militarmente, a meno di schierare nella regione masse di soldati occidentali e arabi.
Alle difficoltà oggettive, si aggiungono le limitazioni poste da Obama ai generali. Il presidente americano, nella recente riunione a Washington dei responsabili militari di 22 paesi che partecipano alla coalizione anti-ISIS, ha cercato, con la sua brillante retorica di “I can!”, di dimostrare che la sua strategia funziona. Ha così esaltato i successi conseguiti: di aver arrestato l’avanzata da Nord verso Baghdad; di aver contenuto l’avanzata dell’ISIS nel Kurdistan e di aver consentito la riconquista della grande diga di Mosul; e, infine, di aver impedito in Siria la conquista di Kobane, divenuta città simbolo sia della resistenza curda, sia prova della bontà della strategia adottata.
La retorica di Obama ha dato fastidio a molti. Taluni hanno addirittura avanzato il sospetto che il presidente americano abbia scambiato il conflitto, in cui si è imbarcato in Iraq e Siria, con un Air-Show, finalizzato a dare nuovi spunti per i suoi splendidi discorsi. La situazione sul terreno è meno esaltante. E’ molto diversa da quella dell’Afghanistan, dove le forze aeree erano state impiegate a massa e di sorpresa. Non a spizzico e dopo molti “tira e molla” come in Iraq e in Siria. Non era stato dato ai Talebani il tempo di preavviso, che invece è stato concesso all’ISIS e che gli ha consentito di mettere al riparo negli abitati gran parte dei mezzi pesanti. Inoltre, in Afghanistan, nuclei di forze speciali americane, inserite nei reparti dell’Alleanza del Nord, designavano gli obiettivi da bombardare, dando efficacia agli attacchi aerei. In Siria e in Iraq è invece stato dato l’ordine di non impegnare soldati USA sulla linea del fuoco. La strategia seguita è definita più in termini di divieti e di limitazioni all’uso della forza, che di obiettivi. Andrebbe modificata. Ma Obama non vuole farlo. Ha promesso di non schierare più truppe di terra americane in Medio Oriente. Vuole innanzitutto salvare la faccia. Molti esperti strategici, tra cui i suoi due precedenti ministri della difesa – Robert Gates e Leon Panetta – l’hanno rimproverato brutalmente per questo. Prima o poi, sarà obbligato al mission creep militare, per evitare di distruggere quanto resta del prestigio americano nella regione. Nel contempo dovrà ridimensionare i suoi obiettivi politici.