L’Italia, ha segnalato oggi sul Corriere della Sera il politologo Angelo Panebianco, è forse troppo impegnata a coltivare il presente – il rapporto economico ed energetico con la Russia – da distogliere lo sguardo dalla complessità del futuro: esigenze di difesa e sicurezza in un quadro occidentale e transatlantico.
Un’analisi che convince a metà Alessandro Politi, analista politico e strategico e direttore della Nato Defense College Foundation, che in una conversazione con Formiche.net spiega perché la politica estera italiana, oggi come oggi, non può prescindere da Mosca. Mentre sulla salute del legame atlantico dice che…
Professor Politi, cosa pensa dell’editoriale di Panebianco? L’Italia è davvero filorussa?
L’Italia è filorussa alla “unanimità”, seppur con sfumature diverse, dalla fine degli anni ’60, quando vennero costruiti i primi gasdotti che portavano e portano il gas russo in Europa. Ed è impossibile negare che ci sia una continuità nella strategia di tutelare il nostro interesse nazionale che coinvolge anche la Russia. Siamo stati protagonisti nella Nato, ma anche attenti ai rapporti con Mosca.
Non c’è il rischio che i nostri rapporti con Washington possano risentire a lungo andare di questa ambiguità?
Credo che, per un Paese manifatturiero come il nostro, il rapporto con la Russia debba partire da una valutazione onesta e concreta: al momento non si può fare a meno del gas di Mosca. Non siamo ancora riusciti a differenziare a dovere le nostre fonti di approvvigionamento, né si può pensare che a sostituire l’energia che arriva dalla Russia possa essere il gas di scisto americano. Primo perché troppo costoso, secondo perché non credo che vogliano esportarne troppo, bensì destinarlo al mercato interno per utilizzarne il vantaggio competitivo. Detto ciò, bisogna anche intendersi sul concetto di atlantismo.
A cosa si riferisce?
L’Italia è stata nel tempo un’alleata che ha offerto sempre il proprio contributo nelle relazioni tra Usa ed Europa. Tuttavia, è impossibile non notare che il legame atlantico oggi, sebbene indispensabile, non sia in ottima salute e non certo per colpa di Roma. In parte non lo è a causa di alcune scelte strutturali e strategiche, come il Pivot to Asia, ma anche perché ai vertici dell’Alleanza atlantica ci sono oggi Paesi come Norvegia e Repubblica Ceca (il segretario generale Jens Stoltenberg e il capo del Comitato militare Petr Pavel, ndr), Stati che oggettivamente contribuiscono poco o comunque meno di altri.
Tornando alla politica estera italiana, ritiene che – come sostiene Panebianco – il perseguimento dell’interesse economico crei interferenze che si ripercuotono sulla sicurezza del Paese?
Non credo ci sia una dicotomia tra economia e sicurezza. Noi guardiamo solo un lato della medaglia, ma anche quella energetica è sicurezza. Avere energia a costi competitivi – che la Germania attinge dalla Russia molto e meglio di noi – è essenziale per un Paese. Sicuramente, se pensiamo alla definizione di una strategia di sicurezza, il Libro Bianco a cui lavora il governo può essere un passo importante, a patto che non serva solo a giustificare tagli.
Ritiene che la posizione italiana sia anche frutto, come scrive il politologo, dei “postumi… della sconfitta nella Seconda guerra mondiale” e della influenza “di un pacifismo cristiano… spesso frainteso”?
Se ne può discutere, anche se non credo che con un Papa come Francesco ci sia in Vaticano un pacifismo “ingenuo” e la dimostrazione l’abbiamo avuta in Siria. Bisognerebbe piuttosto evidenziare come il pacifismo di oggi non derivi dalle reminiscenze della Seconda guerra mondiale, che le nuove generazioni non hanno conosciuto, ma dai disastri di guerre recenti come quella in Irak, che è stata una sconfitta per tutti, anche per i neocon che l’hanno voluta.