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Boschi, Fanfani e l’incoerenza dei renziani

Le parole, si sa, non sempre hanno molto peso per chi le pronuncia. A volte però lo hanno per chi ascolta e rimane stupito. E un certo sconcerto l’intervista di Maria Elena Boschi da Fabio Fazio a ”Che tempo che fa” l’ha suscitato o dovrebbe suscitarlo.

Alla domanda su chi preferisce tra Fanfani e Berlinguer, la brillante ministra non ha avuto dubbi nel rispondere che, da aretina, predilige lo statista democristiano. Fin qui niente di strano. Mi sembra che ci sia, tutto sommato, un fondo di coerenza apprezzabile nel fatto che una giovane politica toscana, che è parte di una cordata riformatrice, si senta ispirata da Fanfani, il padre del centro-sinistra italiano, quello con il trattino, come amava dire Francesco Cossiga, più che dal campione dell’euro comunismo.

Anzi, a ben vedere, non si potrebbe auspicare niente di meglio. Se Renzi e i suoi riuscissero finalmente a trasformare il Partito Democratico nella Democrazia Cristiana, avrebbero compiuto una rivoluzione di portata superiore perfino alle riforme istituzionali. Botteghe Oscure che si lascia ispirare da Piazza del Gesù non sarebbe uno scherzo, ma un toccasana per tutti.

Il problema riguarda però cosa vuole intendere questo endorsement per una delle figure più emblematiche del cattolicesimo politico italiano. Perché dietro lo scudo crociato e all’interno di cinquant’anni di sua vita democratica si sono raccolte tante cose diverse, molti ideali, una linea moderata di governo competente dell’Italia, ma anche un certo trasformismo, una logica di mera gestione del potere e talvolta perfino una certa compiacenza dorotea con gli accordi al ribasso e il fiancheggiamento consociativo con i comunisti. Insomma nella Dc c’era Giulio Andreotti, straordinario alfiere del conservatorismo acuto, sagace e di buon senso, ma anche Aldo Moro e la sinistra di base, oltre a tutte le altre molteplici sfumature dei tantissimi notabilati.

Richiamarsi ad Amintore Fanfani, almeno per me, significa qualcosa di molto preciso, vuol dire rifarsi alla figura ideologica più imponente della Dc, l’uomo che dopo aver governato da dossettiano con Alcide De Gasperi è stato negli anni ’50 il grande organizzatore e promotore culturale del partito da segretario, per poi incarnare eroicamente negli anni ’70, dopo tanti ruoli nazionali e internazionali di responsabilità, l’alternativa ideale e reale al comunismo. La sua seconda segreteria è stata certamente il più motivato sforzo di rifondare sui valori originari della Dc il cattolicesimo politico italiano, distinguendolo dalla destra e contrapponendolo radicalmente al PCI.

Insomma, attenzione al Paese, senso dello Stato, ma soprattutto coerenza nel non cedere una virgola sui principi costitutivi del suo “volontarismo” politico, incastonandolo su una considerazione granitica del primato della persona, della famiglia, della comunità. Questo era Amintore Fanfani. Sulla sua battaglia contro il divorzio durante la campagna referendaria del ’74 se ne sono dette tante, ma indiscutibilmente soprattutto lo animava la consapevolezza piena che la partita non si giocava più sul lavoro, come vent’anni prima, ma sui fondamentali della società, quei valori tradizionali attaccati e messi in discussione dalla svolta relativista della sinistra dopo il ’68, la perdita dei quali sarebbe coincisa con la morte della libertà.

Ecco perché è un bene che la Boschi e Renzi si ricordino di Fanfani e di La Pira, toscani come loro, e che magari ne studino e ripercorrano le gesta. Anche se questo felice amarcord si scontra all’istante con le altre affermazioni che la Boschi stessa ha fatto poco dopo nella sua intervista televisiva e Renzi ha solennemente lanciato alla Leopolda, vale a dire che il Pd si impegnerà per un riconoscimento dei cosiddetti diritti civili e proseguirà in quella linea di relativismo etico che lo ha contraddistinto finora e contro cui Fanfani si è battuto sempre.

Non vedo alcuna coerenza, quindi, in questo accostamento a Fanfani. Non credo infatti che egli e La Pira che lottarono, come prima si ricordava, contro tutto e tutti per difendere, valorizzare e sostenere la famiglia quale ideale centrale e cultura trainante della Dc, si sarebbero minimamente riconosciuti in questa operazione demagogica e profondamente anti storica di portarli nel pantheon del renzismo.

Ma via, siamo seri. Alla fine è necessario scegliersi bene i propri padri, ma soprattutto essere credibili nell’indicarli come maestri. La segreteria Renzi ha portato il PD tra i socialisti europei, si fa portatrice di una politica assistenziale sul lavoro e non produttiva, sostiene non la famiglia costituzionale, quella per cui i democristiani combatterono nel dopoguerra, e perciò non ha nessun legame culturale e ideale con la tradizione elettorale della Dc.

Semmai uno dei motivi della scomparsa della grande balena bianca è stata al principio degli anni ’90 proprio il non saper incarnare più come un tempo il ruolo di partito rappresentativo della maggioranza silenziosa e moderata del Paese, prediligendo un’ambiguità che certo né De Gasperi, né Gonella, né Rumor avrebbero mai avuto. Figuriamoci Fanfani e La Pira.

Quella storia è importante ed è l’anima più profonda di un elettorato italiano che non ha mai votato la sinistra, che non si è mai sentito socialista e non ha mai smesso di credere che il ruolo della politica consiste nel sostenere la vita, la persona, la famiglia e la democrazia. Con buona pace della Boschi e di Renzi, naturalmente.

Forse, se è permesso un consiglio, talvolta è meglio non citare nessuno e restare nei limiti della propria cultura.


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