L’indebolimento dei governi centrali in Irak e in Siria costituisce un’opportunità per i curdi dei due Paesi di ottenere il riconoscimento dei loro diritti civili e, forse, un’autonomia. Il nazionalismo curdo ha preso vigore. La resistenza dei peshmerga contro l’ISIS nell’Irak settentrionale e soprattutto la resistenza a Kobane dei curdi siriani e delle loro Unità di Protezione del Popolo (YPG) hanno attirato la simpatia verso “la più grande nazione senza Stato”, esistente al mondo. Hanno anche suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica internazionale verso la Turchia di Erdogan. Cinicamente, essa ha assistito, dalle colline a Nord della cittadina, all’attacco dei miliziani dell’ISIS, divenuti il “nemico pubblico numero uno dell’Occidente”.
Ma i turchi hanno proprio torto? Non lo credo. Fanno i loro interessi nazionali. Sotto forti pressioni americane hanno concesso che Kobane venisse rinforzata da un gruppo di 200 peshmerga del Kurdistan iracheno. Comprensibilmente, Ankara ha imposto che fossero solo artiglieri e non forze speciali. L’atteggiamento turco trova spiegazione in quanto è avvenuto nel passato. Come sempre esso costituisce la chiave di lettura del futuro, fatto che politici e giornalisti occidentali si rifiutano di accettare. La storia aiuta a valutare la possibilità della costituzione di uno Stato Curdo. Essa è entusiasticamente auspicata da molti politici occidentali, ma avversata non solo dalla Turchia e dall’Iran, ma da tutti gli arabi. A parer mio, a parte l’opposizione esterna, le difficoltà da superare per quella che costituirebbe una vera rivoluzione geopolitica in Medio Oriente (i circa 30 milioni di curdi sono divisi fra Turchia, Irak, Iran e Siria, con piccole minoranze in Azerbaigian e in Armenia) consistono anche nelle divisioni interne esistenti fra i curdi. Non esiste unità fra i curdi. Solo l’immanenza di una minaccia esistenziale può crearla. L’unica cosa su cui tutti concordano è che la costituzione di uno Stato o l’ottenimento di un’autonomia siano possibili solo con uno sponsor esterno.
Il popolo curdo, etnicamente appartenente al gruppo etnico persiano, non possiede un territorio storicamente definito. Le sue tribù erano nomadi. E’ stato diviso fra gli imperi ottomano e persiano. Ogni tanto qualche tribù si ribellava e veniva soggetta a feroci repressioni e a deportazioni. Questo spiega perché viva nel Khorasan iraniano, ai confini dell’Afghanistan, una consistente comunità curda. L’aver fatto sempre parte dei due grandi imperi mediorientali, spiega perché una parte dei partiti curdi – che sono molto frammentati per effetto delle divisioni dei curdi in clan e tribù – guardi alla Turchia; e un’altra parte all’Iran. Le due fazioni si sono combattute anche ferocemente. Basti ricordare il conflitto nel Kurdistan iracheno – dopo la relativa autonomia creata dagli USA nel 1991 – fra il clan dei Barzani – centrale nel Partito Democratico Curdo e sempre più legato ad Ankara – e quello dei Talabani – a cui fa capo il Fronte Nazionale Patriottico, legato all’Iran. La crescente competizione geopolitica fra i due grandi Paesi non arabi, che esercitano però un’influenza determinante nell’intera regione, rende difficile la collaborazione fra le varie parti del popolo curdo. Sia Turchia sia Iran le manipolano a seconda dei loro interessi. L’esistenza di un nemico feroce come l’ISIS, legato al radicalismo arabo-sunnita, ha stimolato una certa unità fra le componenti del variegato arco politico curdo. Anche l’Iran, pur essendo meno rigido della Turchia e degli arabi nell’oppressione dei curdi, è contrario alla costituzione di uno Stato curdo. Non teme movimenti autonomistici fra i suoi curdi, quanto il collasso dell’Irak.
La dicotomia esistente in Irak fra curdi filo-turchi e curdi filo-iraniani è molto accentuata in Siria, dove, a differenza del Kurdistan iracheno, il Partito dell’Unione Democratica (PYD) – filo-iraniano e di fatto neutrale nella rivolta anti-Assad – è prevalente rispetto al Consiglio Nazionale del Kurdistan siriano, legato a Barzani e più filo-turco. Costituitosi nel 2011 con la convergenza di ben 16 gruppi politici fino ad allora in competizione fra loro, partecipa attivamente alla rivolta.
Il PYD è una costola del movimento terrorista curdo PKK che, dal 1984, conduce una lotta armata in Turchia (40mila morti). I difensori di Kobane fanno capo al PYD, accusato da Erdogan di essersi messo d’accordo con Assad, non unendosi alla rivolta contro l’attuale regime alawita. Infatti, nel 2012, le truppe governative sono state ritirate dalle zone curde della Siria nordorientale, permettendo ai curdi del PYD di realizzare una certa autonomia. Questo spiega le esitazioni di Ankara e le sue polemiche con gli USA, sulla concessione del passaggio sul suo territorio di rinforzi ai difensori della cittadina, divenuta simbolo della resistenza curda contro l’ISIS. Questo spiega anche le parole brutali usate da Erdogan nei confronti della strategia americana anti-ISIS e dei rifornimenti avio-lanciati ai difensori di Kobane, che per i turchi sono membri o sostenitori del PKK. Spiega anche perché la Turchia, alla fine e solo dopo forti pressioni occidentali, abbia consentito a Barzani di inviare un contingente di soli artiglieri, inutilizzabili in un’eventuale guerriglia in Turchia.
Erdogan, con quello che è apparso cinismo, ma che in realtà è solo realismo politico, ha accettato di correre il rischio di compromettere il negoziato che aveva intrapreso con i curdi della Turchia. Il loro appoggio gli è necessario per modificare in senso presidenzialistico la costituzione turca, dopo le elezioni politiche del prossimo anno. Qualsiasi sia il successo elettorale dell’AKP, è quasi impossibile che esso raggiunga una maggioranza di due terzi dei seggi, come necessario per modificare la costituzione. L’aver deciso di sfidare tale rischio politico interno e la disapprovazione internazionale dimostra quanto il problema sia centrale per la Turchia.
La questione curda va esaminata nel quadro dell’intera geopolitica mediorientale e dal ruolo che intende giocarvi la Turchia. A parer mio, Erdogan ha ragione ad affermare che gli assetti territoriali imposti alla regione alla fine del primo conflitto mondiale, tradendo le promesse fatte agli arabi in cambio della loro rivolta anti-ottomana, non siano sostenibili. Una proposta di modifica, inaccettabile però alle tre potenze regionali – Turchia, Iran e blocco sunnita, facente capo all’Arabia Saudita – e anche all’Occidente, è quella proposta dall’ISIS. Il Califfato transfrontaliero potrebbe eliminare gli attuali Stati, realizzando assetti simili a quelli promessi dalla Gran Bretagna ai capi della rivolta araba anti-ottomana. Una seconda soluzione è quella accennata da Erdogan. Risulta dalla combinazione di due sue proposte: di rimettere in discussione gli accordi Sykes-Picot e di costituire a sud della frontiera meridionale della Turchia una fascia-cuscinetto, che la protegga sia dal radicalismo islamista dell’ISIS e dei wahhabiti sauditi, sia dalla mezzaluna sciita. Verrebbe in tal modo ripristinata l’influenza neo-ottomana turca in una regione ricchissima di risorse energetiche, facilmente trasportabili in Europa. Perché tale soluzione diventi fattibile, è necessario che Massoud Barzani prenda il controllo dei curdi siriani e concorra a un accordo fra curdi e turchi. Esiste la possibilità che riesca a farlo. Lo dimostra l’autorizzazione di Erdogan al passaggio dell’artiglieria dei peshmerga iracheni verso Kobane e anche la volontà del capo del PKK, Ocalan, di riprendere i negoziati con le autorità di Ankara, per trovare una soluzione alla questione curda. Se un accordo sarà raggiunto, diventerà più chiaro il futuro del Medio Oriente nel post-ISIS e nel post-Assad. A parer mio, l’Occidente ha tutto l’interesse a realizzare un maggior coinvolgimento della Turchia, unico Stato che può mantenere un certo ordine e stabilità. Non dispone di credibili alternative per sbrogliarsi dal ginepraio mediorientale. L’unica possibile teorica, quella di appoggiare l’Iran, di fatto contro la Turchia, Assad contro gli insorti siriani e gli sciiti iracheni contro i curdi, è di certo irrealistica.