L’America torna alle urne il 4 novembre prossimo per le elezioni di midterm, che segnano il giro di boa per il secondo mandato del presidente democratico Barack Obama. La battaglia vera è al Senato, nel quale si voterà per 33 nuovi scranni, circa un terzo del totale. Dopo aver già le mani ben salde sulla Camera, la conquista dell’altro ramo del Parlamento consentirebbe al Partito repubblicano di controllare l’intero Congresso.
Cosa comporterebbe ciò per il governo del Paese? Quali i riflessi in politica estera? E soprattutto, con la stella di Obama ormai affievolita, se ne accenderanno altre?
Ecco tutti gli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Pamela Harris, formatasi a Berkeley e alla Harvard Law School, oggi Associate Dean of Academics e docente di diritto presso la John Cabot University di Roma, dove insegna teoria politica, diritto internazionale, diritto costituzionale e politica americana.
Professoressa Harris, la prossima settimana, martedì per la precisione, si svolgono negli Usa le elezioni di midterm. Qual è la sua percezione di quanto sta accadendo?
Sono delle elezioni senza una grande narrativa, a differenza di quelle di quattro anni fa, incentrate sulla legge sanitaria. Stavolta si fatica a trovare un elemento che entusiasmi o polarizzi gli elettori. Ciò non vuol dire che la tornata di midterm non sia importante.
Che esito avranno le votazioni? Si verificherà quel che temono politologi o giuristi, la cosiddetta “anatra zoppa”?
I sondaggi danno in vantaggio in molti Stati i candidati del Partito repubblicano e il gradimento per Obama non sembra eccezionale. Impossibile dunque prevedere con certezza l’esito, ma qualche indicazione c’è.
Cosa cambierebbe con una netta affermazione dei repubblicani che assegnasse loro per intero Capitol Hill?
Molto poco, se non sul piano della percezione e forse degli equilibri futuri. Il Congresso è già, di fatto, bloccato da tempo e negli ultimi due anni ha prodotto poco o niente. Inoltre, per come è strutturato il sistema americano, anche qualora vi fosse una maggioranza ostile, Obama potrebbe porre il veto presidenziale a leggi o provvedimenti tesi a smantellare il suo lavoro. Se proprio si vuole trovare qualche elemento concreto, forse, conquistando anche il Senato, i repubblicani potrebbero bloccare le nomine per le corti federali, spingendo Obama a nomi più graditi al Gop. O potrebbero mettere i bastoni fra le ruote per alcune spese o nella stesura del bilancio. Per dirla tutta, non è detto che una vittoria repubblicana sia del tutto negativa per i democratici. Ora, come detto, il governo del Paese vive già una fase di stallo. Se entrambe le Camere andassero al Gop, le colpe di questo immobilismo ricadrebbero un po’ su tutti e non solo sul partito del presidente, che allontanerebbe facilmente molte critiche o almeno le più feroci.
Questo per ciò che concerne la politica interna. Come cambierebbe invece l’approccio esterno, ad esempio su dossier come il Ttip – il trattato transatlantico di libero scambio commerciale – che aspettano in questi mesi uno scatto finale?
Anche qui non credo che ci saranno grosse variazioni. Le carte in politica estera, salvo grandi stravolgimenti, sono già sul tavolo. Mentre per ciò che riguarda i trattati commerciali come il Ttip c’è sostanziale convergenza politica nel cogliere tutte le opportunità possibili per l’economia americana.
Il Guardian ha parlato di queste elezioni come dell’inizio di un’era “post-Obama”. Si aprirà quella di Hillary Clinton?
Che l’era di Obama si sia conclusa lo dimostra il fatto che il presidente non vada sul palco a sostenere i candidati; è già piuttosto emerginato. Hillary Clinton, invece, è più presente di Obama in questa campagna elettorale, anche se la sua corsa è iniziata da tempo senza grandi pause. Indubbiamente se i democratici vincono – o quantomeno non perdono il Senato – questo potrebbe avere un buon effetto su di lei.
Perché la stella di Obama, che godeva di un consenso quasi plebiscitario, si è spenta così in fretta? Il suo gradimento tra i cittadini è tra i più bassi nella storia degli Stati Uniti.
Contrariamente a quanto si legge spesso, non credo che sul giudizio a Obama pesino tanto le sue scelte di politica estera – Siria o Isis – o la risposta a minacce come Ebola, quanto la delusione di molti democratici che non hanno condiviso appieno il suo modo di affrontare la crisi economica. Questo accade perché spesso negli Usa i cittadini tendono ad attribuire ai presidenti poteri maggiori di quanti in realtà ne abbiano. A mio avviso Obama, che ha fatto scelte coraggiose in molti campi, verrà rivalutato nei prossimi anni.