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Alfano e Berlusconi tra grazia e malagrazia

Sarà ben difficile opporre smentite credibili al racconto di Angelino Alfano – raccolto da Bruno Vespa nel libro sugli “Italiani voltagabbana” – della grazia mancata a Silvio Berlusconi nell’autunno scorso. Sia che a smentire siano tentati al Quirinale, dove Alfano, allora vice presidente del Consiglio oltre che ministro dell’Interno, chiese e ottenne di essere ricevuto “nella tarda mattinata” del 24 settembre per parlare del destino di Berlusconi dopo la condanna definitiva per frode fiscale comminatagli dalla Cassazione: cosa che fece – ha rivelato – “alla presenza del segretario generale Marra che, come sempre, prese appunti”. Sia che a smentire siano tentati dalle parti di Forza Italia, dove è forte il rancore politico procuratosi da Alfano quando al rapporto con Silvio Berlusconi preferì quello con l’allora presidente del Consiglio Enrico Letta. A salvaguardia del cui governo, e della cui maggioranza, egli mise su un suo partito “diversamente berlusconiano”. Che chiamò Nuovo Centrodestra.

E’ un rancore, quello esistente contro Alfano nei piani alti e bassi di Forza Italia, appena espresso come più duramente non poteva davanti alle telecamere da Daniela Santanchè nel momento in cui si è  orgogliosamente rifiutata di seguire gli altri colleghi di gruppo schieratisi per buon senso politico alla Camera contro la sfiducia al ministro dell’Interno promossa o sostenuta dalle opposizioni grillina, vendoliana e leghista. Che hanno voluto strumentalizzare gli incidenti indubbiamente spiacevoli ma non certamente inediti occorsi a Roma fra polizia e lavoratori in legittima e condivisibile agitazione.

Condannato in Cassazione con procedure a dir poco discutibili, in una rincorsa con i tempi di prescrizione reclamata pubblicamente dagli uffici giudiziari di Milano con fax dal sapore minaccioso ai vertici della suprema Corte, Berlusconi avrebbe potuto contare sulla grazia del presidente della Repubblica se avesse spontaneamente rinunciato al seggio parlamentare “evitando al Senato – ha raccontato Alfano con parole attribuite a Giorgio Napolitano – un grande trauma”. Tale evidentemente era considerato dal capo dello Stato l’epilogo della procedura avviata a Palazzo Madama per arrivare alla decadenza di Berlusconi con l’applicazione sostanzialmente retroattiva della cosiddetta legge Severino: la stessa che, applicata in modo appunto retroattivo a Luigi De Magistris per disporne la sospensione da sindaco di Napoli, è recentemente finita alla verifica di legittimità davanti alla Corte Costituzionale per decisione del Tribunale Amministrativo della Campania.

Una grazia presidenziale emessa solo dopo la deliberazione della pena “principale” della detenzione, che Berlusconi sta scontando con la procedura dei cosiddetti servizi sociali, avrebbe probabilmente risparmiato al Cavaliere anche la pena “accessoria” dell’interdizione, in quel momento ancora da definire, avendone la Cassazione bocciato il calcolo effettuato dalla Corte d’Appello di Milano, in eccesso rispetto alla legge. Un eccesso tipico peraltro di certo rito ambrosiano spesso lamentato non a torto da Berlusconi, almeno sino a quando i giudici milanesi d’appello non gli hanno riservato la gradevole sorpresa del rovesciamento della grave condanna inflittagli in primo grado, nella vicenda Ruby, per prostituzione minorile e concussione.

Le aperture, e relative condizioni, di Napolitano alla grazia naufragarono, secondo il racconto di Alfano, che ancora se ne duole, in un misto di incredulità, ostilità e indifferenza di Berlusconi, del suo cerchio più stretto e del principale, allora, dei suoi avvocati, cioè Niccolò Ghedini. Che vide e indicò nella rinuncia spontanea di Berlusconi al seggio parlamentare solo il modo di farlo fuori politicamente: impressione o previsione, questa, destinata clamorosamente ad essere smentita dai fatti, visto il ruolo politico che Berlusconi è riuscito a conservare e svolge ancora con la sua sistematica interlocuzione, fra l’altro, con il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che pure nell’autunno dell’anno scorso, quando era solo in corsa per la segreteria del Pd, svolse neppure dietro le quinte un’azione di sostanziale sostegno alla fretta e alle forzature dei grillini per portare il Senato a votare la decadenza di Berlusconi e rifiutare l’alternativa, pur condivisa da autorevoli giuristi anche del Pd, di un ricorso alla Corte Costituzionale per la verifica della legge Severino.

Chissà che cosa spinse davvero Berlusconi, di fronte al rapporto fattogli subito a voce da Alfano sugli orientamenti di Napolitano in direzione di una grazia, a irrigidirsi o comunque a non collaborare. Forse la sottovalutazione del Renzi di quei giorni, così diverso da quello di oggi nei rapporti con lui. O la sopravvalutazione della capacità dei giuristi anche di area Pd di evitargli la strada della decadenza con il ricorso alla Corte Costituzionale. O, più semplicemente, la sottovalutazione della disinvoltura di cui si rivelarono capaci quanti pretesero o consentirono che gli fosse negato il sacrosanto diritto di vedere votare il Senato sulla propria decadenza in modo veramente libero, cioè a scrutinio segreto, senza ricorrere al voto palese, meno libero, non con argomenti ma con espedienti che ancora gridano vendetta.

Francesco Damato


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