In Libia esistono tutte le condizioni di una guerra civile prolungata: scontri fra centinaia di milizie, debolmente organizzate fra due gruppi: islamisti e “secolaristi”/nazionalisti; competizione fra le principali città; incertezze sul futuro delle istituzioni e sul mantenimento dell’unità di un paese tanto frammentato politicamente, geograficamente e storicamente; ingerenze esterne che, al limite, potrebbero trasformarsi in guerre per procura. La situazione libica va esaminata nel più ampio contesto delle dinamiche scatenate dal “risveglio arabo” del 2011. Dall’indebolimento degli Stati sono emersi localismi, tribù, etnie, oltre che l’Islam politico.
Alle preoccupazioni degli Stati vicini per un possibile contagio sulla loro sicurezza, si aggiunge la tendenza a sfruttare il caos libico per aumentare la loro influenza, contrastando quella dei competitori. La regionalizzazione della lotta è facilitata dalla transnazionalità di molte delle ideologie formalmente di riferimento ai vari gruppi: Panarabismo; Islam politico; Jihadismo; Fratellanza Musulmana e Salafismo, etnicismi transfrontalieri. La comunità internazionale e le organizzazioni regionali sono impotenti a garantire la transizione verso la stabilità. Gli interessi degli Stati sono spesso contrapposti. La situazione è incerta e troppo complessa, per intervenire senza creare nuovi problemi, anziché risolvere quelli esistenti. Poi, malgrado le ricchezze petrolifere libiche, nessuno è disposto ad impegnarsi a fondo.
Una soluzione militare alla frammentazione clanica del Paese non è praticabile. Nessuna fazione è in grado di prevalere sulle altre, garantendo l’unità del paese. Solo un intervento dei più potenti Stati vicini – Egitto e Algeria – potrebbe conferire al paese una certa stabilità. Beninteso, si correrebbe con esso il rischio di una sua divisione e di anni di guerriglia, favorita dall’immensità del territorio libico. Iniziative dei “benpensanti” dell’ONU, degli USA e dell’UE aggraverebbero solo i problemi, senza risolverli. Infatti, favorirebbero qualche fazione a danno delle altre. Un aiuto internazionale efficace presuppone che esista uno Stato e un governo. In Libia, come in gran parte del mondo arabo, le strutture centrali degli Stati sono in crisi.
Il monopolio della legittimità e della forza esiste sulla carta, non nella realtà. Molti paesi non hanno conosciuto un processo di nazionalizzazione delle masse. Solo esso produce un senso d’identità e dà unità ai popoli. Generalmente, può essere creato solo con la prevalenza di un gruppo sugli altri. Dalla “trappola autoritaria” del “metodo al-Sisi” non è facile uscire. Per ora, solo la Tunisia ci è riuscita.
La Libia conosce una crisi di legittimità. Esistono due governi e due parlamenti. A Tobruch, ha sede la Camera dei Rappresentanti, eletta il 25 giugno scorso, con la partecipazione al voto di solo un quarto dei libici aventi diritto. Si riunisce in albergo o su di un traghetto affittato dalla Grecia. Solo 100-110 dei suoi 200 componenti partecipano ai lavori.
Gli altri sono latitanti. A Tripoli, il resuscitato Congresso Generale Nazionale, eletto nel 2012, ma scioltosi prima delle elezioni del 25 giugno, si è riunito nuovamente, affermando che la sua legittimità deriva dall’emergenza che conosce il paese e ha nominato un “governo di salvezza nazionale”. La scorsa settimana la Corte Suprema libica ha dichiarato illegittime le elezioni del 25 giugno, decretando lo scioglimento della Camera dei Rappresentanti e del Governo di Tobruch. Non si conoscono le motivazioni del provvedimento. Parlamento e governo di Tobruch non obbediranno alla decisione della Corte Suprema. La Comunità internazionale osserva impotente. La mediazione dell’ONU è di fatto bloccata. Taluni Stati della regione (Egitto, Emirati, Algeria e Arabia Saudita) sostengono Tobruch.
Altri (Qatar, Sudan e Turchia), appoggiano Tripoli. La confusione ha raggiunto livelli incredibili. Entrambi i governi dispongono di una forza militare, composta da milizie e “signori della guerra”, che solo parzialmente controllano.
Del tutto velleitari sono gli auspici – fatti da tutti anche perché sono politicamente corretti e non costano nulla – di cessazione degli scontri, di riconciliazione nazionale e di una Libia unita, stabile e democratica. Anche il consesso che dovrebbe mediare fra i vari gruppi, cioè il Consiglio degli Anziani delle varie tribù e realtà locali, si è dichiarato impotente. Il suo presidente si è dimesso. La situazione è di anarchia. La Libia rischia di divenire uno “Stato fallito”, come la Somalia.
Non si vede come si possa uscire dall’imbroglio libico, che rischia di destabilizzare anche gli Stati vicini, sia per “effetto domino” sia perché li invoglia a ingerirsi a sostegno delle fazioni amiche, di fatto per aumentare la propria influenza. La prima vittima del caos libico è stato il Mali, a cui sono seguiti il Niger e la stessa Algeria. La politica occidentale, anche quando ispirata dalle migliori intenzioni, si trova in un’impasse, come in Siria. Le sanzioni, autorizzate dalla Risoluzione 2174 del Consiglio di Sicurezza contro individui e gruppi che si oppongono a una riconciliazione, possono essere applicate solo se esiste la possibilità di distinguere i fra “buoni” e i “cattivi”. Gli USA hanno l’intenzione di adottarle, ma non si vede come sia possibile.
Due fatti complicano ulteriormente la situazione. L’annullamento da parte della Corte Suprema libica del risultato delle elezioni del 25 giugno, con conseguente dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della Camera dei Rappresentanti e del Governo di Abdullah al-Thinni, rifugiatosi a Tobruch, e il fatto che quest’ultimo sia stato riconosciuto come legittimo da molti paesi. Il potere a Tripoli è stato ripreso dal Congresso Nazionale Generale, che ha ripristinato il governo presieduto da Omar al-Hassi, ribattezzato “governo di salvezza nazionale”. Esso è sostenuto dall’“Operazione Alba”, che ha il controllo di Tripoli e di gran parte della Tripolitania con le milizie di Misurata, con i berberi delle montagne Nafusa e con una miriade di gruppi islamisti, tra cui Ansar al-Sharia in Cirenaica. Il governo di Tripoli afferma di aver dovuto agire per impedire una controrivoluzione e la restaurazione del vecchio regime. Dal canto suo, il governo di Tobruch afferma di combattere il terrorismo islamista con l’“Operazione Dignità”.
Al comando dell’ex-generale Khalifa Haiftar, ne fanno parte burocrati e ufficiali di Gheddafi, le milizie di Zintan e anche giovani affascinati dal regime militare egiziano e da un progetto pan-arabo. La missione ONU – retta dallo spagnolo Bernardino Leon – cerca di barcamenarsi fra queste due fazioni principali, tutt’altro che omogenee e divise al loro interno.
A esse vanno aggiunte, nel Sud del paese, le milizie dei Tuareg e dei Tebu, che rivendicano una più larga parte dei profitti del petrolio. Questi ultimi sono convogliati nelle filiali estere della Banca Centrale Libica (che dispone di depositi per circa 60 miliardi di $). Con la Compagnia Nazionale del Petrolio, la Banca Centrale è l’unica istituzione pubblica che riesce in qualche modo a funzionare, finanziando tutti. Le sanzioni le bloccherebbero. Taluni sostengono che ciò indurrebbe le parti a negoziare.
Mi sembra improbabile. In società tanto frammentate, il potere non si divide. S’impone con la forza. In Libia, però, nessuno ne dispone in quantità necessaria per farlo. Le milizie non hanno alcuna intenzione di disarmare né di trovare compromessi. Ormai troppo sangue è stato versato. Inoltre, l’urbanizzazione ha diminuito la coesione delle tribù storiche che, in passato, bene o male, trovavano un accordo. Ciascuna fazione lotta ormai anche per la propria sopravvivenza.
In tale confusione, l’Occidente non ha altra scelta che la neutralità, lasciando i libici fare da soli, senza impelagarsi nelle loro diatribe, ma mantenendo rapporti quanto più cordiali e collaborativi con tutti, nella speranza che, prima o poi, emerga un governo affidabile, con cui si possa concordare qualche iniziativa più concreta per la normalizzazione del paese. Qualora ciò non avvenisse e la situazione si radicalizzasse, diverrebbe inevitabile un intervento massiccio dei principali attori regionali, cioè dell’Egitto e dell’Algeria.