Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Il 5 novembre scorso, il Parlamento ha definitivamente approvato il ddl n. 1651 di conversione del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 meglio conosciuto con il nome di “Sblocca Italia”. Il testo, a rischio decadenza e per questo blindatissimo sia alla Camera che al Senato, è stato approvato dopo un’ultima revisione in commissione parlamentare che ne ha modificato alcuni aspetti rispetto alla versione votata a settembre.
Il documento prevede una serie di “misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e la ripresa delle attività produttive”. Tutto l’iter legislativo, ed in particolare le ultime fasi, sono stati caratterizzati dalle proteste di Greenpeace, SEL e Movimento 5 Stelle dentro il Parlamento e dall’indignazione di buona parte della società civile organizzata, fuori.
Tra le norme maggiormente contestate vi sono quelle contenute negli articoli 36 e 38 al capo IX (“Misure urgenti in materia di energia”), i quali, secondo i promotori, dovrebbero rilanciare la produzione nazionale di idrocarburi. Il decreto introduce in effetti alcune importanti novità destinate a rivoluzionare l’estrazione di petrolio e gas in Italia. In primo luogo, viene introdotto un «titolo concessorio unico» [1] valido sia per la fase di ricerca che per quella di produzione che, oltre a uniformare la normativa italiana a quella dei principali paesi produttori d’Europa, dovrebbe snellire i tempi di autorizzazione che in Italia sono più del doppio rispetto alla media mondiale.
In secondo luogo, viene riconosciuto alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi lo status giuridico di interesse strategico, pubblica utilità, urgenza e indifferibilità, riconoscimento che facilita le procedure di esproprio e riduce la possibilità che ricorsi regionali o comunali vanifichino progetti già autorizzati da Roma. A tal fine, è stata inoltre definita la scadenza del 31 marzo 2015 per il passaggio di consegne delle procedure di valutazioni di impatto ambientale in corso dai Consigli regionali al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
La forzata subordinazione delle Regioni ai poteri centrali ha provocato un terremoto nei Consigli interessati (Abruzzo, Puglia, Sardegna e Campania in primis), molti dei quali si sono detti pronti a ricorrere alla Corte Costituzionale. La rivendicazione riguarderebbe il depauperamento delle funzioni regionali, non in linea con i principi di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Secondo i più agguerriti, in sintesi, senza la riforma del Titolo V della Costituzione, il cosiddetto ‘Sblocca Trivelle’ è carta straccia.
A questa accusa potrebbe essere dovuto l’inatteso reinserimento nel testo finale della fatidica espressione che vincola il rilascio del titolo concessorio unico alla “previa intesa con la regione interessata”. Una formula che tutela il governo in sede costituzionale ma che rischia di vanificare il tentativo di superare i veti incrociati delle istituzioni territoriali, principale ostacolo all’aumento della produzione nazionale. Le norme sopracitate confermano le intenzioni più volte espresse dal Premier Matteo Renzi e dal Ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi di rilanciare un settore che ci vede tra i primi al mondo in termini di competenze tecniche, con una buona base mineraria, ma tra gli ultimi per capacità di suo sfruttamento.
Gli articoli 36 e 38 infatti, per quanto contestati, non sono altro che il risultato di una lunga trattativa estiva tra il MISE e la Regione Basilicata2. Un risultato che si potrebbe sintetizzare così: maggiori benefici economici e garanzie ambientali in cambio di un passo indietro delle Regioni nelle procedure di rilascio delle concessioni e dei permessi di ricerca. Il governatore lucano Marcello Pittella porta a casa un risultato più che soddisfacente in termini economici: oltre l’annunciato sblocco dal patto di stabilità delle royalties relative alle diverse concessioni minerarie presenti in Regione (€158 milioni solo nel 2013 per la Basilicata), si è aggiunta la conversione del contestatissimo “bonus carburanti” della Basilicata in un fondo per la promozione di misure di sviluppo economico e sociale.
Un’altra conquista inattesa per le regioni interessate da progetti di estrazione autorizzati dopo il 12 settembre 2013 è il versamento nel fondo per lo sviluppo regionale del 30% dell’IRES (tassa statale) pagata dalle compagnie petrolifere che, insieme alla totalità dell’IRAP (tassa regionale) e delle suddette royalties, rende le regioni sempre più beneficiarie della presenza di attività Oil&Gas sul territorio. Non risultano invece soddisfatte le promesse fatte in ottobre dal sottosegretario allo Sviluppo Simona Vicari riguardo le compensazioni economiche per i comuni, specie per quelli costieri interessati da nuove estrazioni marittime.
Anche sul fronte della salvaguardia ambientale, non si può affermare che le ultime revisioni del testo non abbiano tenuto conto delle perplessità dell’opinione pubblica e delle istituzioni territoriali. Il comma 11-quater dell’art.38, esplicita per la prima volta nella normativa italiana il divieto alla “ricerca ed estrazione di shale gas e di shale oil e il rilascio dei relativi titoli minerari”. Per quanto attiene le nuove concessioni offshore, invece, si impone l’obbligo di una “valutazione di impatto ambientale che dimostri l’assenza di effetti di subsidenza dell’attività sulla costa, sull’equilibrio dell’ecosistema e sugli insediamenti antropici”.
Inoltre, tra gli adempimenti delle compagnie richiedenti i permessi, si aggiunge l’obbligo di presentare garanzie fideiussorie per le opere di recupero ambientale e la verifica di tutte le garanzie economiche, a copertura dei costi derivanti da eventuali incidenti. Infine, sul fronte del tanto temuto inquinamento delle falde acquifere, viene inserita la norma per cui “l’operatore è tenuto ad avere un registro delle quantità esatte di rifiuti di estrazione solidi e liquidi, pena la revoca dell’autorizzazione all’attività estrattiva.” Anche l’art, 37, per quanto ignorato dalla maggior parte dei media nazionali, evidenzia una volontà ben precisa sul futuro delle politiche energetiche del governo.
Esso afferma, infatti, che “i gasdotti di importazione di gas dall’estero, i terminali di rigassificazione di GNL, gli stoccaggi di gas naturale e le infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas naturale, incluse le operazioni preparatorie necessarie alla redazione dei progetti e relative opere connesse ,rivestono carattere di interesse strategico e costituiscono una priorità a carattere nazionale e sono di pubblica utilità, nonché indifferibili e urgenti.” Tradotta nella pratica, questa norma, oltre a garantire una gestione delle riserve di gas più scrupolosa, spiana la strada al TAP, il gasdotto internazionale che dovrebbe veicolare il gas dall’Azerbaijan alle coste pugliesi.
L’opera, per quanto assicuri all’Italia una posizione di leadership nella sicurezza degli approvvigionamenti europei, sta subendo una forte opposizione da parte delle comunità pugliesi, col rischio per il governo di ‘perdere la faccia’ verso sia gli altri paesi firmatari dell’accordo che l’intera Europa. Rimane da capire come si darà seguito agli adempimenti previsti nella nuova legge per darvi effettiva applicazione. La scadenza prioritaria riguarda il MISE, che dovrà entro 180 giorni approvare un ‘disciplinare tipo’ in cui siano indicate le specifiche modalità di conferimento del titolo concessorio unico.
Nel frattempo, le compagnie interessate al loro rilascio dovranno farne richiesta entro 90 giorni dall’entrate in vigore della legge. Entro luglio 2015, infine, l’Italia dovrà recepire formalmente la nuova direttiva europea sulla sicurezza delle estrazioni, momento nel quale si potrebbe concretizzare la proposta della scatola nera e di ulteriori misure di monitoraggio delle attività di estrazione promesse dal MISE. Il vero nodo della questione riguarda, tuttavia, ancora una volta i possibili conflitti inter-istituzionali tra governo e regioni. Se la dichiarazione di incostituzionalità dello Sblocca Italia pare poco probabile, lo stesso non può dirsi per i veti regionali in sede di Valutazione Ambientale e il rilascio dei titoli concessori.
L’accordo con la Basilicata garantisce in questo senso un notevole passo avanti, ma resta da capire quanto le altre regioni abbiano intenzione di concedere al paese in termini di rilancio della produzione interna di idrocarburi. E soprattutto quanto le nuove procedure si dimostreranno realmente immuni da eventuali loro ripensamenti.
[1] “Programma generale di lavori articolato in una prima fase di ricerca, per la durata di sei anni, prorogabile due volte per un periodo di tre anni nel caso sia necessario completare le opere di ricerca, a cui seguono, in caso di rinvenimento di un giacimento tecnicamente ed economicamente coltivabile, riconosciuto dal Ministero dello sviluppo economico, la fase di coltivazione della durata di trenta anni prorogabile per una o più volte per un periodo di dieci anni ove siano stati adempiuti gli obblighi derivanti dal decreto di concessione e il giacimento risulti ancora coltivabile, e quella di ripristino finale.”