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Ignazio Marino fa rima con disastro capitolino

Quindici anni fa, il sociologo Carlo Trigilia definì la condizione dell’Italia in termini di “dinamismo privato e disordine pubblico”. Dove, a ben vedere, il secondo era il presupposto del primo. Da allora le cose sono certamente peggiorate, perché il dinamismo privato si è afflosciato e il disordine pubblico si è ingigantito.

In questo senso, la condizione di Roma non è altro che la deprimente metafora di quella nazionale. Ignazio Marino è un sindaco troppo nervoso e forse inadeguato, ma l’arte temeraria di vivere a debito annovera illustri precursori in tutte le amministrazioni capitoline dell’ultimo ventennio.

“Roma ladrona” è uno slogan odioso e stupido, siamo d’accordo. Ma, Francesco Rutelli o Walter Veltroni o Gianni Alemanno con la fascia tricolore, la città eterna è stata fin qui guidata da una costellazione di interessi che ha trasformato la sistematica violazione delle regole in preziosa risorsa di ascesa sociale e politica. Una vicenda che si è conclusa in un disastro finanziario e in un conto salatissimo per i contribuenti.

A questo punto, Marino dovrebbe capire che nessuna domanda di moralità e di rinnovamento può trovare ascolto se non è seguita da misure in grado di bonificare il retroterra economico del patologico disordine pubblico e del malsano dinamismo privato di una metropoli sempre meno degna di un Paese civile.

Se non se la sente di sradicare privilegi, corporativismi e corruttela, si faccia da parte. Se invece non vuole o non ne è capace, venga sostituito con un commissario governativo. A Matteo Renzi si presenta una magnifica occasione per passare dalle parole ai fatti.


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