La Turchia ha tratto il dado e, dopo mesi di tentennamenti e troppe ambiguità, arma i peshmerga curdi. Può darsi che ora qualcosa stia maturando e che Ankara stia iniziando a schierarsi, ma ci piacerebbe sentirlo dire in chiaro da Recep Tayyp Erdogan e dal fedele Ahmed Davatoglu. Invece, lo ha detto Fuad Hussein, il loquace capo di gabinetto del presidente regionale curdo Massoud Barzani. Il vertice della Repubblica di Turchia, al momento, sembrerebbe molto più indaffarato a reprimere le conquiste kemaliste delle donne, piuttosto che quelle sul terreno dei tagliagole del “califfo” Abu Bakr al-Bagdadi. Certo qualcosa dovranno pur fare, per mostrare al mondo che – tardivamente pentiti – stanno davvero prendendo le distanze da coloro che prima avevano incautamente favorito e, forse, anche armato. Oggi si rendono ben conto che, se non cambiano strada, la pena è l’isolamento internazionale.
Come mai, allora, è il curdo Fuad Hussein a rivelare ai media che Ankara ha cominciato ad inviare armi ed addestrare i suoi compatrioti? Per ora, spiega, si tratta solo della fornitura di armi leggere, munizioni ed equipaggiamento standard per consentire le procedure comuni alla coalizione anti-califfo, ma non si esclude anche l’arrivo di sistemi d’arma più complessi. Il fatto è che, in materia di Isis e di curdi, la situazione in seno al governo ed al Paese continua ad essere complessa. I Turchi non hanno mai amato i curdi di casa propria e continuano tuttora a combattere il partito comunista (Pkk) del carcerato Ocalan, ma non amano nemmeno i curdi siriani – guarda caso sono proprio quelli che difendono Kobane – in quanto ideologicamente affini al Pkk. Quindi le armi turche di cui parla Fuad Hussein con ogni probabilità hanno come destinatario, in modo molto selettivo, solamente il governo regionale iracheno di Erbil, con il quale da tempo Ankara intrattiene buoni rapporti. Non è improbabile quindi che la Turchia – le cui difficoltà a “sbilanciarsi” ufficialmente sono ben comprensibili – abbia pensato di veicolare al mondo il proprio appoggio alla lotta anti-califfo attraverso Fuad Hussein, buon amico del segretario di Stato John Kerry.
Secondo David L. Philips, giornalista della CNBC, il momento in Turchia è assai delicato perché sia Erdogan che Davatoglu, a fronte dell’esplosione delle capacità militari dell’Isis al tempo dell’imprevedibile conquista di Mosul, starebbero cercando ora di “smarcare” dalle ambiguità del passato il partito islamico (Akp) che li ha portati al successo, ma la situazione rimane tuttora molto vischiosa. Sempre secondo Philips, che avrebbe incontrato ed intervistato diversi parlamentari e personalità turche, il problema nasce e tuttora risiede nelle attività della Turkey’s Fundation for Human Rights, Freedoms and Humanitarian Relief (IHH), organizzazione che raccoglie fondi (la zakat che ogni buon musulmano deve versare come obolo in funzione del reddito) in 120 paesi e collabora a stretto contatto con la Fratellanza Musulmana. Questa charity in passato, e forse ancora oggi, avrebbe finanziato le attività di formazione dell’Isis. L’IHH, bandito nel 2008 da Israele per aver finanziato Hamas, era salita alla ribalta nel 2010 per aver organizzato con una nave commerciale turca la Gaza Flotilla, e nello stesso anno fu bandita anche dalla Germania per sospette relazioni con lo jihadismo europeo. Nel 2012, l’IHH si sarebbe occupata della prima spedizione selettiva di armi ai ribelli siriani.
La discesa in campo turca annunciata dal curdo iracheno Fuad Hussein è importante perché significherebbe non solo un parto difficile, ma anche un’inversione di rotta. Con molte cautele, tuttavia, visto che la charity IHH, assieme alle attività di supporto iniziale all’Isis, pare abbia finanziato in parallelo anche il partito islamico Akp del Presidente. Davvero un bel pasticcio, per Erdogan e Davatoglu…
Mario Arpino è giornalista pubblicista, collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.