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Perché la crisi delle Pmi è una priorità per l’Italia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

I dati parlano chiaro, ed occorre sempre porre mente alla situazione delle nostre Piccole e Medie Imprese, che sono, lo sappiamo tutti, il nucleo della nostra economia.

Dicono gli analisti che il nostro PIL, con le correzioni e le destagionalizzazioni di uso tra gli statistici, è calato ancora dello 0,1% rispetto al trimestre precedente e di ben lo 0,5% nei confronti del 2013.

Il problema è che, come hanno evidenziato alcuni studiosi, le Piccole e Medie Imprese hanno una altissima capacità di sfruttare le opportunità dei mercati interni e globali, ma la stessa frammentazione viene pagata in termini di bassi livelli di produttività e quindi di egualmente bassa e strutturale capacità di competizione su tutti i mercati.

Le PMI sono bambini molto intelligenti ma, come spesso capita, gracili e poco muscolosi.

Intanto, lo sappiamo tutti, c’è la questione dell’accesso al credito, che spesso è difficilissimo e scarsamente risolutivo, in quantità e qualità, per lo sviluppo e la stabilizzazione delle Piccole e Medie Imprese.

Le imprese in Italia, lo ricordiamo, sono oltre 3,4 milioni di aziende individuali, 5,9 imprese attive alla fine del 2013, 900 mila società di persone.

La loro morte sarà la contrazione del mercato interno e internazionale, che è esiziale per chi, come le PMI, ha scarse possibilità di gestione dei cicli commerciali, il vecchio business cycledi Samuelson, e soprattutto per chi, come sempre le piccole imprese, è la vittima designata del credit crunch, della rapida e massiccia restrizione del credito bancario.

Se, invece di adattare le banche ai modelli di business bolsi che si insegnano ancora in qualche Business School, che valgono per le automobili, i piselli in scatola, le matite e, infine, per il credito, si ritornasse al vecchio sistema della responsabilità quantitativa del direttore di Filiale, che può decidere un quid perché conosce il cliente, senza la solita trafila disumanizzante della Direzione Generale, per la quale tutti i clienti sono, hegelianamente, vacche scure nella notte buia, avremo già fatto un passo in avanti.

Sconto assegni, limite razionalmente elastico di fido, acquisizione di tutta la liquidità in scambi della PMI, ecco i vecchi sistemi finanziari, già noti alle banche dei Medici che operavano in Medio Oriente, che potrebbero ritornare utili, invece dei sistemi tutti rigorosamente in cattivo inglese ma tutti, sistematicamente, stupidi e privi di elasticità.

Le Regole di Basilea 3 sono state esiziali, perché le PMI non sono naturaliteradatte ad accettare i criteri elaborati nella città svizzera con due stazioni e tre porti (c’è anche quello francese) sul Reno.

Il leverage ratio del 3%, ( il leverage è pari al rapporto tra capitale netto e totale delle attività) che pure è stato elasticizzato, non fa presagire fondi nuovi per le imprese, piccole e grandi, e l’irrigidimento dei criteri di concessione dei fidi è chiaramente una tutela delle banche rispetto al rischio d’impresa.

Il Banco vince sempre, come ben sanno i frequentatori dei Casinò.

Poi, con fatturato e valore aggiunto in calo, le PMI italiane hanno sofferto una contrazione dei margini lordi di ben 31 punti percentuali, mentre la redditività netta si è più che dimezzata, passando dal 13,9% al 5,6%, e il costo del lavoro, aumentato, è stato ferale per molte piccole e medie imprese.

Come fare, per il costo del lavoro? Intanto, lo si può largamente detassare, come qualcuno già propone, e basterebbe uno sconto fiscale del 4,5% per tornare a sorridere, e poi si può pensare, dopo che il Jobs Actè passato, ad una trasformazione della logica dell’assicurazione contro la disoccupazione.

Invece di una Cassa Integrazione Guadagni, che il breve governo di Ferruccio Parri (giugno-dicembre 1945) pensò per dare un salario agli operai mentre si ristrutturavano le industrie, si potrebbe pensare ad un fondo per la gestione delle Maestranze finanziato da una quota dell’IVA e da una percentuale dei redditi delle aziende pubbliche e delle maggiori private, o da una quota percentuale sulle vendite di imprese italiane a investitori esteri.

Una soluzione sono, e lo saranno sempre di più, i mini-bond.

Un mercato che vale oggi 4,2 miliardi di Euro, ma le PMI che hanno emesso obbligazioni tipo “mini-bond” sono un drappello piccolissimo: si tratta di solo 29 imprese, per un totale di emissioni titoli di 226 milioni di Euro.

Altro problema, è la formazione manageriale. Solo il 18% delle PMI ha finora avviato corsi di formazione e aggiornamento, necessari come il pane quando si opera, da piccoli, su mercati strutturalmente complessi.

Naturalmente, i costi per la formazione andrebbero largamente detassati.

I punti ormai sono chiari: riforma dello Stato, per evitare che la macchina burocratica si aggiudichi le poche risorse finanziarie a scapito delle famiglie e delle imprese, quindi tenuta dell’Italia nell’Euro, che altrimenti sarebbe davvero a rischio, poi riforma del fisco per le attività produttive, infine formazione permanente, utilizzando la rete delle scuole che già ci sono, per migliorare la produttività.

Il “Destinazione Italia” per le PMI non basta: il credito d’imposta sul 50% delle spese è una buona cosa, ma occorre avere prima la liquidità necessaria, il che non è facile.

I 22 milioni all’ICE per internazionalizzare le nostre PMI sono anch’essi buona cosa, ma si tratta non di snellire le procedure o aumentare i tempi di apertura delle dogane, ma piuttosto di abolire molte delle scartoffie che vengono richieste per riuscire a esportare.

I mutui agevolati e le garanzie sui finanziamenti vanno ancora benissimo, ma occorre ricostruire l’access to credit di molte PMI, che non possono godere di larghi crediti per la loro stessa struttura interna o per la storia personale dei titolari.

Le detrazioni fiscali, poi, per la connessione digitale sono certo benvenute, ma la tecnologia non è, di per sé, la panacea che risolve tutti i mali.

Insomma, non abbiamo ancora un progetto di riforma e sostegno alle Piccole e Medie Imprese che sia universale, diretto, efficace per i vari settori di attività e, soprattutto, tale da rilanciare l’economia dei fattori di produzione.

Tutto è settoriale oggi nell’aiuto alle PMI, con poca attenzione alla espansione della loro liquidità, che è il punto dolente di tutta la questione, e poca attenzione inoltre alla diffusione, tra Stato, Regioni e altri Enti Locali (e Università) delle tecnologie “chiavi in mano” che possano essere subityo applicate in ambito PMI.

Non vorrei poi essere tacciato di nazionalista e “corporativo”, ma occorre impedire, con le buone (il sostegno) e le cattive (le sanzioni commerciali e penali) che le PMI che vadano all’estero e privino così il nostro tessuto produttivo di valore aggiunto, lavoro, fisco e liquidità.

Basta con la moda dell’outsourcing, all’estero devono andare le grandi imprese che modellano i loro mercati, non i piccoli imprenditori che rimarranno in balia di governi, mafie locali, mediatori spesso oscuri del Partito o dello Stato che li spolperanno senza pietà, per il solo mito del basso costo del lavoro, che è spesso un assetfittizio.

Meglio i “piaggisti” pontederesi, magari stalinisti, ma che ascoltano i motori a due tempi come se fossero Riccardo Muti nel Requiem di Verdi, degli indianini che non hanno visto non dico un motore a scoppio, ma nemmeno, spesso, i fuochi d’artificio.

Meglio le operaie sapienti e gastronome dell’Alto Piemonte, per fare i dolci e le creme al cioccolato, delle donne asiatiche che non conoscono nemmeno i sapori antichi che stanno elaborando.

La qualità della forza-lavoro è un dato essenziale, che spesso non si riflette nel semplice costo del lavoro e nella valutazione salariale.

Mai dimenticarla, è per quello che le nostre PMI sopravvivono ancora, in un equilibrio tra Capitale e Lavoro che ricorda da vicino le famiglie e i trust giapponesi descritti da Francis Fukuyama nel suo “Fiducia” del 1996.

Qualcuno si scandalizzerà per la mia uscita protezionista, ma se si sapesse come e con quanti trucchi i Grandi Stati si tengono dentro i confini le aziende, sareste meno meravigliati.

Intanto, il panorama si fa fosco: la Bocconi calcola che con la crisi delle PMI si siano persi 120 miliardi di fatturato e 8841 imprese, con 405.317 posti di lavoro evaporati.

Le 47.000 imprese piccole e medie sopravvissute sono però cresciute solo del 26%, un dato al di sotto della soglia di galleggiamento imprenditoriale.

Le imprese che ripagano i debiti in modo ottimale sono solo il 21,3% delle PMI sopravvissute, e il periodo di pay-back del debito si è allungato ulteriormente di un anno e mezzo, mentre la redditività è ancora accettabile, si parla di un 7,6% l’anno, un livello che permetterebbe anche l’uscita dalla crisi, se gli altri valori fossero ottimali.

Ma allora, anche sulla base di questi dati, occorre: 1) ripensare ad un fondo di liquidità per le PMI, 2) ristrutturare il sistema bancario in relazione alle necessità delle imprese, che non sono pericolose e fastidiose concorrenti di più facili investimenti, per le banche, in titoli del debito pubblico, 3) eliminare gran parte della burocrazia nell’area internazionalizzazione.

Vedremo quindi cosa succederà, in questo settore, dopo la messa in azione del Jobs Act di Matteo Renzi.

Giancarlo Elia Valori è professore di Economia e Politica Internazionale presso la Peking University e presidente de “La Centrale Finanziaria Generale Spa”

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