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Perché Renzi e Marino temono il commissariamento di Roma

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Marco Bertoncini apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

I grillini sono prontamente scesi in campo con una richiesta ovvia: si sciolga Roma Capitale. Ben presto, a dichiarare carenti i motivi per commissariare il maggiore ente locale d’Italia si è mossa una pattuglia di personaggi istituzionali, quali il presidente del senato e il ministro dell’interno.

Si capisce bene che il rifiuto del commissariamento ha solide ragioni politiche. Ammettiamo che il prefetto invii una relazione sui fatti oggetto d’indagine della procura romana proponendo di sciogliere gli organi cittadini, che il consiglio dei ministri deliberi (su proposta del titolare dell’Interno) e che il presidente della Repubblica firmi il decreto. La commissione amministratrice di Roma Capitale resterebbe in carica almeno un anno. Dopo di che, si andrebbe alle elezioni.

Ebbene, ci sarebbe il tempo per sedimentare l’attuale scontata reazione popolare. Resterebbe, tuttavia, sempre un’oggettiva difficoltà, specie per il Pd (ma anche per il centro-destra, stante il coinvolgimento di Gianni Alemanno, a favore del quale non si sentono certamente molte voci), di chiedere voti, con l’aggravante dello scioglimento per «fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare». Meglio evitare il commissariamento, anche per i pesanti risvolti d’immagine che trascinerebbe con sé. Risvolti mondiali: la notizia che la mafia aveva conquistato il Campidoglio, certificata dal commissariamento, porterebbe a una perdita d’immagine chiaramente gravissima. Risvolti politici: al M5s (e in minor misura anche alla Lega, che può sfoderare il motto di Roma ladrona) si fornirebbe una nuova arma di propaganda antipolitica. È dunque preferibile seguire il manzoniano consiglio: sopire (se proprio non si può troncare).



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