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Vi spiego cosa divide Usa e Israele. Parla il prof. Ugo Volli

Oggi, nella Capitale, il premier israeliano Benjamin Netanyahu incontra il capo della diplomazia americana, John Kerry, e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.

Quali gli argomenti dei colloqui? Quali i punti in comune e i nodi da sciogliere per stabilizzare un Medio Oriente ancora più indebolito dall’Isis, dall’ennesimo rinvio del negoziato con l’Iran e dalla caduta del prezzo del petrolio?

Tutti aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con il semiologo e filosofo del linguaggio Ugo Volli, professore ordinario all’Università di Torino e autore della prefazione del libro “Ebrei contro Israele” di Giulio Meotti (Belforte, 2014). Su Twitter scrive: “Difendo Israele, lotto contro l’antisemitismo”.

Professore, di cosa hanno discusso Kerry e Netanyahu? E perché lo fanno a Roma?

L’incontro si svolge a Roma perché l’Italia è al centro di una rete diplomatica, legata, soprattutto, alla sua posizione di presidente di turno dell’Ue. Qui Kerry ha già incontrato ieri il suo omologo russo, Sergej Lavrov. Al centro dei colloqui ci sono sia la situazione mediorientale e le tensioni con la Palestina, sia il dossier iraniano; argomenti a loro modo collegati.

Perché questo incontro è importante?

L’amministrazione Usa si trova in difficoltà, perché la sua politica in Medio Oriente non produce i risultati sperati: con l’Iran l’accordo è stato rimandato, l’Isis avanza, Assad è ancora al potere in Siria. Per questo Washington cerca di portare a casa qualche risultato propagandistico, come ad esempio l’apertura di nuovi negoziati, anche se finora rivelatisi infruttuosi. Seppur riluttante, Israele dovrà ascoltare. Gli Usa hanno infatti tra le mani una forte leva. L’Olp presenterà mercoledì 17 dicembre al Consiglio di sicurezza dell’Onu un progetto di risoluzione che reclama la fine entro due anni della presenza israeliana attraverso un percorso scadenzato di due anni in cui Israele dovrebbe tornare ai confini internazionali del ’49;  o pre ’67, come ha detto Neatanyahu. Ciò è finora saltato grazie al veto americano. Ma se questo non ci fosse…

In Europa si moltiplicano i sostegni al riconoscimento dello Stato palestinese. L’ultimo è avvenuto ad opera del Parlamento spagnolo. Cosa ne pensa?

Lo trovo profondamente pericoloso, perché incoraggia il terrorismo e l’instabilità. In Israele non passa giorno che piccoli attentati, rapimenti e minacce tocchino la popolazione e la terrorizzino. E mentre a Tel Aviv viene richiesta sempre la massima responsabilità, la violenza di Hamas, e non solo, viene premiata con questi riconoscimenti. Il voto della risoluzione del Parlamento spagnolo è avvenuto lo stesso giorno dell’attentato alla sinagoga. Inaccettabile.

Qual è la posizione dell’Italia? E come definirebbe i rapporti di Roma con Israele?

I rapporti con Roma si potrebbero definire buoni. L’Italia non è tra i Paesi che hanno spinto a favore di mozioni per il riconoscimento dello Stato palesinese. E sia Gentiloni sia Renzi sono percepiti come politici non anti-israeliani. Questo agevola senza dubbio le relazioni bilaterali.

A dividere Usa e Israele, in questo momento, c’è soprattutto il dossier iraniano. Tel Aviv considera Teheran una minaccia alla sua stessa esistenza, mentre Washington punta a un accordo. Come giudica lo stato delle cose?

Quello che sta succedendo non è chiaro. Da un lato Israele è in un periodo elettorale, nel quale si accentuano le divisioni tra la destra piu rigida e la sinistra più aperturista. In alcune cancellerie c’è la convinzione che qualcosa possa cambiare, ma il passato dimostra che la politica di sicurezza di Israele è sostanzialmente bipartisan. L’Iran è un grande Paese, nonché uno degli attori chiave della politica mediorientale. Da 20 anni, però, questo Paese – un po’ per convinzione religiosa, un po’ per attirare simpatie nella regione – minaccia Israele di distruzione. Per questo Tel Aviv non può che ritenere inaccettabile qualsiasi compromesso con l’Iran che non preveda l’impossibilità di sviluppare armi atomiche. Una soluzione che auspicano anche altri alleati Usa come l’Arabia Saudita e che la politica di Obama ha finora disatteso.



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